Ormai capita di ribadirlo sempre più spesso o, in alternativa, di esserne felici quando accade: all'album è preferibile il formato più snello dell'ep, soprattutto quando non ci sono abbastanza canzoni valide.
Tocca adesso ai Madreperla vedersi rinfacciare questo consiglio, all'indomani del loro vero e proprio esordio sulla lunga distanza. Che, sia chiaro, non è un brutto disco, ma di belle canzoni ne ha poche - e per di più quasi tutte nei frangenti iniziali.
La partenza, infatti, è al fulmicotone: la title-track, un rock energico dalle tinte decisamente nineties, apre la strada a "Valvola" (la migliore in assoluto del lotto), una scarica punk-noise arricchita da un sax malvagio che a tratti ricorda le atmosfere del primo disco firmato Il Teatro degli Orrori. Si prosegue sulle stesse trame - anzi probabilmente più scure - con "Non pensare", sicché arrivi a convincerti che questi Madreperla, a dispetto del nome gentile, le suoneranno di santa ragione, visto che il tris d'apertura è l'equivalente di una scossa mozzafiato. Persino la successiva "Viola", dove la band si concede il lusso di rallentare leggermente il ritmo tornando a sonorità più vicine al grunge, contribuisce a mantenere il giudizio sull'opera a un livello medio-alto.
Dopodiché, neppure il tempo di arrivare al giro di boa, avviene quasi un tracollo: gli arrangiamenti svoltano all'improvviso, virando verso una sorta di ibrido tra Negramaro e Le Vibrazioni (!). Praticamente un altro disco rispetto a quanto ascoltato finora: sparisce la dose di cattiveria mista al nervosismo, in favore di un appiattimento sugli stilemi tipici del pop nazionale. E non basta una cover di Modugno e Pasolini ("Cosa sono le nuvole"), per di più interpretata esattamente secondo lo schema dell'ibrido di cui sopra, per accreditarsi anche in questo ambito. E "Il primo giorno del mondo", l'unica ballata da salvare nella seconda metà dell’album, presenta comunque difetti riconducibili ancora una volta ad una modalità canora ferma (magari inconsapevolmente) al modello Sangiorgi.
Tanto per fare un esempio su come si sarebbe potuto evolvere diversamente un brano, "L'unica cosa che vorrei" si presta alla grande: se nel minuto iniziale si fa apprezzare per il tentativo di volersi richiamare vagamente ai La Crus di “Dentro me”, nello svolgimento finisce per diventare l'ennesimo climax chitarristico che scimmiotta i Muse. A questo punto vi basterà convertire il sound di Bellamy e soci nella nostra lingua e il risultato finale è di facile intuizione.
In conclusione, “La noia è una vostra invenzione” sarebbe potuto essere un grandissimo lavoro, visto e considerato anche il team di lavorazione (Pino Marino ne cura la produzione artistica), invece finisce per farsi apprezzare giusto per qualche sparuto episodio. Sarà per la prossima?
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