Quanti assoli può ancora contenere un disco negli anni duemila?
La domanda ricorrente durante l'ascolto di “Phlegethon”, quarta prova sulla lunga distanza dei Kingcrow, è: quanti assoli può ancora contenere un brano negli anni duemila? La band risponde con tredici tracce a sostegno della convinzione che sia necessario seguire alla lettera i dettami della virtù e del virtuosismo.
Un album organico e ben strutturato, che trova la sua collocazione ideale accanto a “Images and words” dei Dream Theater. Che però è uscito nel 1992. Del resto, è il paradosso del rock progressivo in genere: pur dichiarando negli intenti una spinta verso l'evoluzione, si codifica come genere musicale tendente agli stereotipi. Un dramma simile a quello di un criceto che corre nella sua ruota: in movimento, eppure fermo allo stesso punto. E non ce la possiamo prendere con i Kingcrow se si inchinano fin troppo alla statica tradizione.
Il loro “Phlegenthon” è un disco perfettamente suonato, che percorre due vie principali. La prima è lineare, senza imprevisto alcuno, ed è costituita da canzoni in cui la parte strumentale supera spesso quella accompagnata dal bel canto, su tutte “Washing out memories”. Ma è anche il caso di “Island”, in cui i passaggi vocali hanno qualcosa di avvincente, sottolineati da una chitarra degna di un cantore epico, ma questo spunto sfuma in un prolisso ricamo sonoro. O ancora “Lulluby for an innocent”, in cui la dolce intuizione della ballata viene stroncata da un assolo patinato che distoglie l'attenzione. E “Timeshift box”, in cui chitarroni fendono l'aria come spade affilate senza risparmiarsi passaggi quasi in stile PFM.
C'è poi la seconda strada, più cupa, in cui tetre atmosfere contaminano suoni puliti. Le tastiere degne di un film horror anni 80, un drumming da avanzata delle tenebre e immancabile voce pulita dell'eroe di “The slide” - imperdonabile l'intro in cui scroscia l'imperioso rumore di acqua di mare, ripreso a chiusura del cerchio anche nella finale titletrack. I cori complessi e sovrapposti di “The great silence”. L'inquietudine di una linea melodica arabeggiante in “Fading out. Part III”.
Sfugge a questa stretta classificazione “Numb (Incipit, climax & coda)”, otto minuti e quarantasette secondi di cambi di tempo, virtuosismi, ma anche passaggi thrash, ritmica jungle, funky e chi più ne ha più ne metta.
In definitiva e nonostante ciò che ne ho scritto, “Phlegethon” è un disco interessante. O forse lo sarebbe, se fosse uscito nel 1992. Ma i vent'anni di ritardo sono perfettamente in linea con la logica del criceto e della sua ruota, del movimento statico che ingabbia persino i musicisti più validi.
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La recensione Phlegethon di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2012-11-30 00:00:00
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