Esistono fiori il cui bocciolo, pur nascendo in maniera precoce, impiega tempi piuttosto lunghi prima di aprire in uno sbadiglio profumato i propri petali. Sono, in genere, quei fiori che resistono al freddo e alle intemperie. La loro ingenua bellezza è tale da indurci facilmente al perdono se, in un precedente ciclo vitale, non erano pronti a sbocciare.
È per questo che perdoniamo i Dead CanDies se, con il loro omonimo Ep precedente, legato a un'impostazione pop-rock con seminali ambizioni folk wave, non ci avevano del tutto convinti. A distanza di due anni, tornano con il nuovo “Architecture”, esito di un percorso di maturazione che si snoda in sei belle tracce, piccole variazioni di colori notturni.
La voce maschile è quella di Angel. È lui a cantare in pezzi come “Disneyland”, le cui chitarre ariose ricordano una versione meno accigliata degli Interpol. Venature di un folk oscuro, malandrino e accattivante dipingono “Tonite” (che si avvicina ai primi Spiritual Front) per poi sfumare con delicatezza in un pezzo come “Stalking heads” o nella cover di Bob Dylan, “Tambourine”, in cui riferimento sembrano essere gli Arcade Fire.
La voce femminile è quella di Eleonora, ruvida eleganza che sostiene due brani. Il primo, “It's not architecture”, tra bassi che martellano il cuore e sussulti della batteria, seduce l'ascoltatore con sonorità sintetiche gravide di paesaggi notturni. Il secondo, “Boys”, è l'episodio più “pop” dell'album, sostenuto da una maggiore consapevolezza compositiva rispetto ai tempi dell'esordio.
Ciò di cui si potrebbe accusare “Architecture” è qualcosa di simile alla banalità dei fiori, a quella bellezza così ovvia da passare inosservata. Come quella della rosa tra milioni di altre rose. Ma i Dead CanDies ci propongono un ascolto che, seppure non nuovo, è bello quanto fresco e appassionato. Ed è per questo che non possiamo fare a meno di godere della loro deliziosa ingenuità.
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