Irrequieto Madaski.
Dopo l'esordio esplicitamente intitolato "Monsù dub" (1994), gli insuperati assalti sonori dello straordinario concept "Distorta diagnostica" (1996) ed il successo delle 'canzoni' drum'n'bass del precedente "Da shit is serious" (1998), il techno-cowboy vira ancora una volta, dando alle stampe un quarto album nuovamente 'diverso'.
A partire da radici profonde e lontane.
Decisamente disallineato dalla (criminale) santificazione "degli '80 finora ripresi e celebrati" (liquidati lapidariamente con una nota incontrovertibile: "make-up, mascara e merletti non fanno per me."), Mada si confronta con il loro lato oscuro, andando a tuffarsi nelle fosche acque dark/new-wave e riemergendone con un album in cui filologia, imbastardimento, ricerca e rielaborazione coesistono ancora una volta in un ammirevole equilibrio.
"Dance or die" - che tra l'altro segna il sistematico ritorno di Madaski al microfono (dopo la pur positiva esperienza dei variegati 'appalti' vocali nel precedente "Da shit is serious") - è un album solido, ben strutturato (scaletta sapiente e pessima disponibilità all'ascolto in random), necessariamente dominato da uno stile più pulito ed asciutto (almeno relativamente alle produzioni precedenti), che concede poco ai primissimi ascolti per poi rivelarsi nella sua complessità in quelli immediatamente successivi.
L'apertura è esemplare: "The perfect groove", intorno alle voci filtrate, è diritta, lineare ed incalzante, subito affiancata, con modalità analoghe, dalle due tracce successive, in una già limpida dichiarazione d'intenti, mentre con "The calling" si approda al primo break, quieto e breve. Si riparte con "Sanctify your soul", languida hit con l'inconfondibile voce in prima linea, ottimi inserti di piano ed un ritornello che non lascia scampo, seguita dalla saltellante title track (tra beats 'elettrocrucchi', vocine killer, squarci chitarristici ed un irresistibile richiamo della pista), per poi tornare a respirare con la prima parte di "Tribute", che successivamente si complica e si incupisce, andando ad ospitare efficaci contributi di archi e piano.
Il terzo blocco si apre con "Oblivious", che propone come ospiti i Monuments ("duo torinese capostipite della scena elettronica italiana"), nel passaggio forse maggiormente revivalistico dell'intero cd, poi bissata dai synth taglienti di "White side" - e anche qui la prima parte lineare progressivamente si sporca, saturandosi di chitarre - e sublimata dalla cover degli Ultravox pre Midge Ure (quelli "meno noti ma geniali, capitanati dall'immenso J. Foxx"), per chiudere con il piano di "The impossible me", ulteriore - e definitiva - camera di decompressione.
Synth nervosi e non sempre disposti ad assecondare gli stilemi, ibridazioni chitarristiche (al solito opera dell'ottimo Ru Catania, con Mada anche negli Africa Unite), tracce vocali sapientemente gestite, programmazioni variegate, di volta in volta irresistibilmente lineari o articolate, 'rotonde' o fredde, bpm mai troppo elevati, pregevoli intarsi di pianoforte, speziature sonore e disturbi diffusi come marchio di fabbrica dell'autore; il tutto ben dosato, elaborato con efficacia ed ottimamente sospeso, in quanto a destinazione d'uso, tra dancefloor e fruzione domestica, per un album indiscutibilmente riuscito.
E, tra le due alternative proposte dal titolo, la scelta, rapida e sicura, è per la danza.
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La recensione Dance or die di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2002-04-16 00:00:00
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