“Tutti i treni presi in fretta e i cancelli scavalcati”
Quanto è bello pensare e parlare (ancora oggi, ancora di più) di una band come i Fine Before You Came? Quanto è stato bello vederli crescere e cambiare pelle anno dopo anno, disco dopo disco? Passare dagli slanci e dai polmoni consumati in un esordio come “Cultivation Of Ease”, al respiro, alla testa e all’ardore di un album come l’omonimo concept del 2006. Per approdare poi, ormai che sono già quasi tre anni, alla nuova rotta disegnata da “Sfortuna”.
Che a volte capita che sia soprattutto il cuore quello a volersi fermare di tanto in tanto. Prendere fiato, guardare avanti, ridisegnare i confini e poi, di nuovo, sentirsi pronto a (con)dividere determinati istanti. Fare la cernita giusta tra ciò che è necessario e ciò che invece è, senza alcun dubbio di sorta, fuffa ridondante. “Sfortuna” è stato così la sintesi necessaria, di un certo modo di suonare ma probabilmente anche di essere, che poi da lì è deflagrato in aria come un razzo. Non so se aiuti a comprenderne la portata, però, per dire, quante altre band dopo di loro hanno improvvisamente deciso di spostare l’asticella verso l’italiano? Tante, un sacco. Poi certo, l’inghippo non stava solo lì, però tutto il vociare che ha iniziato a girare attorno ai FBYC è stato di quelli improvvisi e inaspettati che oltre a essere bellone e sacrosanto è stato un po’ come quando la maestra si alzava e dava la nota di merito a quello dell’ultimo banco, che stava tutto il giorno a combinarne una più del diavolo. All’inizio ci rimanevi a bocca aperta, però capivi poi che quella peste c’aveva pure un cuore grande così. Meriti, lacrime, applausi.
Così, a metà tra l’indolente e il necessario, spulciando in un’anonima domenica sera tra i post dei social network, è arrivato pure “Ormai”. Un regalo gradito e inaspettato, di quelli che subito è finito col crearsi, da confermata aspettativa, un gran vociare e scaricare attorno. Arrivato soprattutto in un normalissimo silenzio, quasi a controbilanciare, senza comunicati stampa anticipatori, streaming esclusivi, chiacchiere e bla bla di qua e di là. Una raccolta di sette pezzi, sette canzoni, scritte e cantate da cinque (detto con stima ed amore) cazzari, un disco che - a quanto dicono - “Non è stato per nulla facile. Trovare il tempo di trovarsi, provare e tornare a casa col sorriso della vittoria. Spesso c’era il broncio della sconfitta. E la consapevolezza che non ci saremmo rivisti per settimane intere.”
E così, fedeli allo spirito (che passano i feedback e le angolazioni però quello, se sei forte davvero, lo lasci sempre intinto del candore originario) “Ormai” è un album dove la dose preventiva di tristezza e mancarone è sempre la stessa. Dannatamente vera e dannatamente bella. Che a certe cose non si arriva mai a essere impermeabili. E ascoltare la prima tripletta ti butta a terra come sospettavi: “Sasso” e “Magone” già le suonavano durante i live: la prima è chirurgica, per come ti guarda negli occhi e ti costringe a fare come al solito conti scomodi; la seconda è una cavalcata, si apre nei momenti giusti e con la stessa perizia ti si attacca addosso. Però ci vogliono parecchi ascolti, non brilla in immediatezza. Dopo ci sono “Per non esser pipistrelli” e “Paese”, è quello che pareva un sentore rimane a farsi dare conferma. C’è un senso di soffocamento e di stanchezza che non avevo mai avvertito nei FBYC, soprattutto qui, in questi due pezzi. I testi non decollano mai a dovere, ed è un peccato: sono ricchi di belle immagini, però l’epifania in forma di colpo improvviso e anthemico non arriva, rimangono le nuvole, il cielo non schiarisce e l’arcobaleno resta sospeso. Poi un’altra svolta e le ultime due sono perfette: “Capire settembre” soprattutto, ha un’intro super lacrimogena e lacerante, uno dei migliori pezzi della loro carriera; “La domenica c’è il mercato” è invece la conclusione necessaria, si tirano le somme e si lasciano andare anche le ultime paturnie.
Ovviamente rimanere fermo all’analisi oggettiva in casi così è anche limitante. Perché come dicevamo, i Fine sono di quelle band che trivellano ognuno in maniera diversa, toccano nervi scoperti a seconda di sensibilità differenti. E magari quei pezzi lì, vi diranno assai di più di tanti altri. Però “Ormai” non è un altro passo in avanti, come ci avevano abituato. Rimane sulla stessa linea di “Sfortuna”, anzi a volte manca quella fluidità e levigatezza. Mi sarei aspettato un altro disco enorme come e più di quello. Ce ne hanno dato uno bellissimo. Ce lo faremo bastare.
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