E' davvero difficile parlare in pochi termini del nuovo disco di Apash 2012. Già di per sé il progetto è quanto di più atipico il panorama nostrano possa concederci: una tribù di nomadi del suono, nella quale ognuno può dare il proprio contributo musicale. Il tutto nasce dalla figura centrale di Fabio Armando Patini, intestatario del moniker, che, dopo due prove low-fi tra disagio esistenziale post-grunge e college rock intriso di ruvidezze sonore e melodia stemperata, si adagia dietro una chitarra e, con l'ausilio di qualche ammennicolo elettronico, si cimenta con una prova talmente intimista che a tratti potrebbe quasi apparire imbarazzante per quanto riesca a mettersi a nudo.
Piccole bombe emozionali senza tempo di lamento pop, musica da cameretta intrisa talmente tanto di animo da stringerti il cuore e soffocarti in una morsa d'empatica tristezza che non lascia scampo. Poca ricercatezza e una produzione pressoché assente conferiscono genuinità e valore a un'opera a metà strada tra la sincerità primigenia di Daniel Johnston e la struggente essenza di vocalist come il mai troppo compianto Elliott Smith e il ragazzo in perenne tormento da pene d'amore Tom McRae .
Dall'apertura a cappella di una quanto mai originale versione apocrifa del canto di chiesa "Holy", la strada di "Blacker" è costellata di piccole gemme cantautorali ("It's Your Turn"), ferali appariscenze minimali a lasciar sovrastare un cantato pregno di rottura emozionale ("Routine", la sonnacchiosa "Alcatraz"), fino a sintetiche performance che, con un'adeguata produzione alle spalle, si confermerebbero perfetti singoli radiofonici (la tristemente allegra "Happiness"). Non mancano alchimie electro-freak vagamente simil Animal Collective, come "All In" o "Shiva", né depresse e spettrali ballate ("Rosemary Fields Whatever"). Di fatto non è facile parlare di un disco come questo, perché dentro vi è un'essenza del tutto personale e un'urgenza priva di velleità o pretesto alcuno (totale mancanza di scelte promozionali), che ti si scioglie addosso specchiandosi di fatto al tuo interno.
"Blacker" non è un ascolto semplice, nonostante i suoi 30 minuti scarsi riesce a far precipitare la psiche in un mood fatto di lacerante tristezza, intriso di una poesia che, nella semplice e totale mancanza di perfezione, riesce a cogliere impreparati gli ascoltatori più sensibili. Ai più superficiali, o a coloro in cerca di qualcosa d'innovativo o super curato, è decisamente sconsigliabile l'ascolto.
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