Una pianura sconfinata. L’America, quella fotografata nelle sue vesti selvagge e aride. West, Sud, non importa, c’è quell’atmosfera lì, con lo spazio sospeso ai rintocchi del tempo. Peckinpah c’avrebbe messo chili di sangue, Leone avrebbe lasciato tutto alla volontà del Clint Eastwood di turno. Scenografia e sceneggiatura, i Movie Star Junkies si ficcano dentro a una roba da registi e ne escono fuori con un disco, “Son Of The Dust”, che sfugge a quella che è la sua natura stessa. Un piccolo lungometraggio da 40 minuti, una storia, coi morti ammazzati, le anime nere, come quelle che finiscono nei film western, come quelle che i Movie Star Junkies, in un modo o nell’altro, avevano sempre voluto raccontare.
Il primo monito è che questo disco è musica da leggere, da vederci appresso attaccato qualcosa. Ancora di più delle cose precedenti, il concept su Melville, “A Poison Tree” che dentro c’aveva rimandi alle poesie di Blake e ai racconti di Emanuel Carnevali. Immaginatevi così dieci lunghi piani-sequenza, ognuno dei quali intento a prendere tutto quello che c’è di vivo o di morto nei quadri catturati dalle parole, da degli strumenti che non erano mai stati, nel caso dei Movie, così modulati come un lungo continuum. “These woods have ears”, la prima, è una panoramica di quello che lo straniero si trova di fronte arrivato al villaggio. Cumuli di sabbia, buchi neri, gente a cui il respiro è stato tolto da una siccità devastante. Per far fronte alla quale viene chiamato lui, taumaturgo pagano che, in un modo o nell’altro, riuscirà a tener fede al suo impegno. Col costo di una vita, l’aiuto di un’altra, a sua volta sconvolta da un successivo martirio. Tre personaggi protagonisti di una storia che, a rivelarvela, finirei per togliervi la curiosità di stare ancorati fino al finale.
Ovvio che però non ce ne sarebbe bisogno, perchè i Movie Star Junkies regalano una sonorizzazione coi fiocchi. Pezzi che stanno lì a enfatizzare l’atmosfera dei fatti narrati, tengono il passo delle parole che, come tradizione, a tratti diventano urli sciamanici, grida incontrollate o, più semplicemente, impellente bisogno di mostrare come, da band che veramente si rispetti, in quelle canzoni ci si finisca per ‘abitare’. L’anima tutta e il background sono puro blues, ma di quello sbronzo e malato, figlio bastardo mischiato col garage e il rock’n’roll, e dilatato poi a lasciare emergere il songwriting e il folk, che sta nella melodia, nascosto sotto, con la sua discografia di Tom Waits e Nick Cave ripiegata e messa giù al braccio.
Citarvi un pezzo tanto che un altro, finirebbe per togliere tutta l’imprescindibilita col quale, immagino, sia stato concepito il lavoro. Vi basti sapere che ad ascolto finito sarà come risvegliarvi da una lungo miraggio passato tra orecchie e occhi, come finire un libro e rileggere centinaia di volte l’ultima pagina. Oppure come uscire dal cinema e tener vivo dentro il peso di ciò che si è ammirato. Buona visione.
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