La nudità ha diverse accezioni. Il corpo amato, riverso e languido tra le lenzuola sfatte. Oppure l'ingenuità bambina, che si mostra per quella che è, senza mezzi termini o giri di parole. Ancora, una stanza disadorna e spoglia: nessun quadro alle pareti, né cianfrusaglie sulle mensole.
Il nuovo album dei Giardini di Mirò è esattamente così: si destreggia agile tra un'intensa sensualità nei contenuti e nelle forme e il desiderio di rivelarsi per ciò che è. Un'onestà disarmante che nei momenti di disequilibrio si trasforma in una sorta di minimalismo.
I legami con le scintille de “Il fuoco” sono riscontrabili negli incastri ottimamente riusciti di tasselli differenti. “Spurious love” è l'esempio lampante di una cifra caratteristica dell'intero album: l'unione di new wave e post-rock è l'amplesso di due amanti. L'incedere della batteria è regale, il respiro dilatato delle chitarre si arrende all'eleganza struggente delle parole. Rispetto a quel piatto ricco dalle atmosfere scure chiamato “Dividing opinions”, i Giardini propongono qui suoni essenziali e leggeri, rinunciando alle derive shoegaze, alle distorsioni, e le note sono carezze nell'aria torbida. “Memories” è la prova: una ballad morbida sul filo del rasoio dei ricordi, chitarra e voce e percussioni che entrano piano, come il passo leggero di chi va via al mattino e non vuole far rumore. Le liriche, ricercate è delicatissime, sono radiografia dei paesaggi dell'animo umano che cambiano con lo scorrere del tempo racchiudendo in sé malinconie e progetti nelle varie declinazioni del ricordo e delle aspettative per il futuro.
Ci sono pezzi come “Ride”, una cavalcata sonora nella nebbia wave che viene però stemperata da atmosfere sognanti. Ed altri, come “Time on time”, in cui i Joy Division riecheggiano fin troppo chiaramente con una sorta di dichiarazione d'appartenenza o di tributo alle sonorità di quegli anni. Poi le collaborazioni. Sara Lov dei Devics impreziosisce la magistrale “There is a place”, soffuso languore, batteria spazzolata e chitarra ipnotica. “Rome”, arricchita dalla presenza di Angela Baraldi, è il ritratto sbiadito e nostalgico di una capitale che non viene descritta come ripugnante o insopportabile, ma come fosse una vecchia signora silenziosa che tanto avrebbe da raccontare riguardo alla propria austera bellezza. L'attacco è lentissimo, caratterizzato da ripetizioni di sintagmi sonori, a sottolineare un senso di eternità immutabile: è per questo che l'esplosione centrale del pezzo, con l'incalzare della sessione ritmica, è una sorpresa o forse un gradevole imprevisto. La conclusiva “Flat heart society” ha un arrangiamento a tratti drone e disincantato, note lontanissime tra loro, non mi fa impazzire, ma è coerente con lo sguardo duplice che la band offre al mondo in “Good luck”: da una parte racconta la sfiducia, dall'altra la speranza. Sono accordi che si ripetono, ancora e ancora. Come il sole che ogni giorno torna a nascere: una certezza rassicurante, dopotutto. Al centro esatto dell'album, come un cuore pulsante, la title track, unica strumentale, quasi a voler significare che non servono parole per augurare una buona sorte.
E in quell'augurio confluiscono speranze e paure, le stesse che accompagnano una partenza, che si annidano in un viaggio o in un addio. Un album dominato dai chiaroscuri, che sembra essere il delizioso raccolto dei fiori seminati nel tempo in questi Giardini. Il buio non è mai completo: la luce è morbida e diffusa, e “Good luck” è l'istante prima che l'abat-jour si spenga in una stanza durante l'ultimo incontro, animato da una tenace opposizione alla consapevolezza, pur presente, che il mondo che ci circonda non è sempre disposto a proteggere le isole d'amore in cui potersi rifugiare. I Giardini di Mirò scattano una fotografia all'umano sentire che non può che essere sfuocata trattandosi di materia in movimento ancor più del treno su cui li ho ascoltati. “Good luck” non pretende di essere un album eccessivamente originale, come non lo sono i sentimenti, come non lo siamo noi quando piangiamo, gridiamo, respiriamo, moriamo d'amore o quando, sulla soglia del distacco, sussurriamo pianissimo due sole parole.
“Buona fortuna.”
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