C’è molta America nel sangue degli emiliani Blue Noha. C’è l’America del rock’n’roll anni ’50, quella di Woodstock anni ’60; c’è la reminiscenza dell’hard seventies e soprattutto lo spirito del rock melodico indipendente anni ’80. In ogni caso, mi permetto di pensare che il loro stereo abbia letto per migliaia di volte anche nastri di Beatles, Velvet Underground, Rolling Stones, Springsteen e tutto quanto faccia rock, gradevole, non barricadero e con l’occhio strizzato al pop.
Si inizia con “50$ Babe”, canzone in pieno stile Velvet (quelli di Lou Reed, naturalmente!!!), con coretti che rimandano a certi ritornelli nascosti tra i solchi dei Pixies. Con la seconda, “Blue 9” si vira un po’ più verso la tonalità minore e l’impasto raggiunge quell’adorabile sapore agrodolce, tanto caro ai primi R.E.M. e agli Husker Du.
La frizzante “Don’t bring me back” continua ad alimentare il sapore di un America scanzonata di qualche decennio fa e ci porta fino alla bella (forse la più bella) “Viola”: molto sognante, a tratti canzonetta, a tratti malinconica ma sempre molto delicata con inserti di archi. Davanti alla struttura delle chitarre si ha la sensazione di trovarsi di fronte ad un pezzo che avrebbe potuto essere dei migliori Dinosaur Jr.: melodia e ritornello con gli occhioni spalancati che sembrano volerci parlare di un qualcosa a cui si tiene molto.
Conclude il tutto “The night rock’n’roll broke”, altro brano ritmato che non lascia più dubbi sull’inclinazione della band, che però in questo caso prova ad osare un po’di più sul piano percussivo.
In tutto il lavoro non c’è una particolare ricerca sperimentale e neanche la sensazione di trovarsi di fronte ad un qualcosa di memorabile. Il tutto, però, è confezionato piuttosto bene e diventa convincente, soprattutto in relazione alla sua sincerità. La canzoni hanno, talvolta, un retrogusto di “già sentito” ma è innegabile che abbiano una buona presa ed in alcuni casi paiono particolarmente ispirate: suonano!
Alla fine restano lo stupore ed anche il piacere nel constatare come, anche in un’epoca musicale confusamente proiettata verso ‘il Nuovo’ come la nostra, ci sia ancora la possibilità di guardarsi indietro; è bello che esista ancora un certo margine di praticabilità per generi, non certo di tendenza, ma dall’innegabile fascino vintage/evergreen.
Il dilemma è sempre quello e la risposta non può che essere personale: il buon musicista è quello che si spinge sempre avanti? O deve anche sapere cosa ha alle spalle? Deve comporre buona musica o musica innovativa?
I Blue Noha suonano e basta; a me danno l’idea di essere sinceri. Probabilmente non vi faranno perdere il sonno alla notte, ma forse potrebbero rendere un po’ più gradevole qualche ora delle vostre giornate. Fate voi… e ad ognuno il suo!
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La recensione Haunted mama blues di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2002-05-13 00:00:00
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