A voler essere professionali (sempre che di professionisti si possa parlare in questi ambiti) bisognerebbe trattare questo disco con estremo distacco, come se fosse il primo lavoro di un nuovo gruppo tosco-emiliano - con ottime esperienze alle spalle d’accordo -, ma completamente nuovo se non in volto, certo nello spirito. Al dover essere distaccato e professionale preferirei spararmi in bocca… ma stasera non ho una pistola tra le mani né molta voglia di morire… dommage! Cercherò comunque di dimenticare…
Una copertina così scarna e brutale non rende giustizia a un disco così morbido e ben curato: la croce rossa vergata sopra la scritta “ex componenti dei C.S.I.” sembra un po’ la metafora di questi PGR, una croce che non riesce bene a coprire quella scritta così come del resto questo disco alla fine, non riesce bene a coprire quello che è stato. Beh, personalmente ne sono felice.
L’intero album sembra un esperimento diviso in più parti; inizialmente quello che esce ha un sapore esotico ed etnico… lo si legge nei titoli delle canzoni, lo si avverte nei ritmi a metà tra il tribale e un’elettronica quasi accennata. Sembra quasi uno di quei progetti ad ampio recupero e respiro, ma troppo improbabili per arrivare fino in fondo su queste linee.
E infatti “Montesole”, la traccia numero quattro, spezza questo equilibrio già labile in partenza, almeno nelle aspettative, nelle mie se non altro. “Montesole” che si distende sopra scricchiolii da vecchio vinile e un’ elettronica dosata con intelligenza e ricercatezza, lasciando spazio a morbidissime aperture che si dilatano e dilatano incredibilmente. Bellissime parole lasciate a fluttuare dentro dolcissime melodie annacquate. Ginevra Di Marco da il meglio di se.
E fa venire in mente un pezzo che aveva il nome di una donna, “Annarella”, qualcuno magari l’ha conosciuta, qualcuno se la ricorda, ma avevamo detto di dimenticare… pardon!
Il pezzo che segue, “Settanta”, potrebbe prestarsi a numerose letture. E ci sarà sicuramente chi tenterà di trovare in quel testo tutto il senso che può esserci o non esserci, ci sarà chi proverà a tirarne fuori incredibili ricami, e chi si appellerà al passato facendone tabula rasa. Personalmente la trovo un’ironica parentesi, orecchiabile, accattivante, uno di quei pezzi che ti girano in testa anche se non vuoi, perché usa parole che conosci da un vita, perché ha in se delle rime e delle espressioni che non puoi dimenticare, e se poi ci sia un senso nascosto o meno poco importa. Ho sempre avuto l’impressione che Ferretti non fosse poi l’uomo serio che appare o vuole apparire, almeno non sempre.
“Ah! Le monde” è forse il pezzo che mi ha colpito di più per le atmosfere e per le aperture giocate magistralmente in un fondersi perfetto di musiche e linee vocali. E proprio in questo pezzo, beh… mi è sembrato strano sentirsi dire proprio da Ferretti che “…comunicare fa male...”, lui che con un’apparente facilità e naturalezza crea (ed ha creato) slogan di rara efficacia; lui che, volente o nolente, resta uno dei più grandi comunicatori di questo fine secolo nostrano.
La sperimentazione continua con il tentativo vagamente trip-hop di “Blando comando telecomandato”, che tuttavia non convince a pieno, troppo sintetico per le voci e le idee dei Nostri. Lo stesso vale un po’ per gli otto minuti e passa di “Come bambino”, traccia che inizialmente coinvolge lasciando trasparire linee melodiche e un modo di scrivere che piacerebbero sicuramente a Battiato, ma poi si spezza in cambi improvvisi, come se al suo interno dovessero essere contenuti tre pezzi diversi e si perde in cantilene elettroniche che lasciano un po’ perplessi.
L’ultima nota vorrei riservarla invece a “11 settembre 2001”, dove anche Ferretti ha voluto lasciare un segno su quei giorni… più che di canzone si potrebbe parlare di una sorta di monologhi con sottofondo musicale. Al di là del pensiero un po’ buonista concesso al “poliziotto… mi tocca contenere non fidarmi né del bene né al male…”, la parte conclusiva vale tutto il pezzo e anche di più: la poesia delle parole, le voci sussurrate e spezzate che raddoppiano e galleggiano, mi piacerebbe poterla vivere in un teatro, in silenzio assoluto e senza luci intorno.
Degne di nota le orchestrazioni di Magnelli e Maroccolo che si avventurano in manipolazioni psichedelico-ipnotiche servendosi di un’apparecchiatura vintage con tanto di wurlitzer (ormai tornato di moda) e rhodes, oltre all’utilizzo della strumentazione di sempre. Ed altrettanto degne e inaspettate le chitarre fantasma di Canali, che ad un primo ascolto, sembrano quasi non esserci.
Ed è un continuo perdersi alla ricerca di distorsioni e disturbi che hanno fatto grande un passato non troppo lontano, ma non c’è niente da fare, sembra tutto azzerato, eppure… eppure i successivi ascolti lasciano emergere magicamente suoni su suoni e allora le chitarre cominciano a venir fuori, soffuse e minimali, bellissime chitarre - fantasma appunto. Di Hector Zazou direi che in fondo, da buon alchimista, è riuscito a tirar fuori delle cose interessanti, manipolando la musica e forse anche gli spiriti.
Una curiosità, infine, mi spinge a lanciare al vento una domanda: mi piacerebbe sapere cosa c’entrava Pelù. La sua ‘partecipazione’ è a dir poco assurda se non quasi patetica (se non ce lo avessero scritto credo che l’ex Litfiba avrebbe stentato a riconoscersi). Ma resto con un dubbio… voleva essere un omaggio o una presa per il culo?
Wow! Sono arrivato in fondo, e adesso finalmente posso dimenticare… di aver dovuto dimenticare. Tutto sommato un buon disco questo dei nuovissimi PGR., ma ho troppi buoni motivi per non restare ancorato con gli occhi all’indietro…
Ignaro del futuro… resto fedele alla linea… anche quando non c’è!
---
La recensione s/t di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2002-05-16 00:00:00
COMMENTI