Brain in vain Spiritual but Profane 2012 - Indie, Blues, Post-Rock

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Qualche buono spunto, ma soprattutto tante cose da migliorare per il duo bolognese

Lasciando da parte qualsiasi tipo di riferimento, più o meno ironico, al nome della band, il modo migliore per entrare in un disco come “Spiritual but profane” è… ascoltandolo. Che, per quanto suoni ovvio, non è da dare mai per scontato. Perché “Spiritual but profane” è un disco ostico. Punto. Ostico come primo impatto (e anche secondo), ostico nella decodifica, ostico nell’immedesimazione. Di conseguenza, l’unico modo per cavare un ragno dal buco è mettersi seduti con pazienza e cuffie e ascoltare. Una, due, cinque volte.

Ascoltare un duo, Stefano Passini e Daniele Branchini, che per dieci pezzi sciorina un sound di base molto asciutto, con chitarra e batteria a reggere l’intero costrutto, agghindato da testi in inglese al limite dello speech. Dieci pezzi punk per attitudine (e sottolineo attitudine), di base math rock / alternative, tendenti spesso e volentieri ad una sorta di funk blues sghembo. Qualcosa di simile ai Primus, ma meno elaborato, per quanto comunque molto complesso. Cambi di tempo, virate tonali, accelerazioni e decelerazioni improvvise, riff campati per aria portati al limite della sopportazione. A “Spiritual but profane” non manca davvero niente per farsi odiare.

Quindi? Quindi da una parte massimo rispetto, davvero. Perché, esempio, “Dissidence” è davvero un buon pezzo. Partenza lenta, la batteria che entra dolcemente accompagnata dalla chitarra che lancia un piccolo crescendo. La forma canzone che lentamente va a farsi un giro per lasciare spazio ad una folle improvvisazione controllata. Il pezzo migliore del disco; quello che “Spiritual but profane” sarebbe dovuto essere nella sua totalità. Il condizionale a questo punto però è d’obbligo, perché “Spiritual but profane”, per quanto ricco di (chiamiamoli semplicemente) spunti, in generale non è un buon disco. Troppo ridondante, troppo pieno, troppo autoindulgente.

Sia chiaro: per quanto mi riguarda, più un disco è estremo – senza distinzione di genere; pop da classifica, neomelodico napoletano, metal, indie, elettronica – meglio è. Sono sinceramente convinto che l’unico modo possibile di dire qualcosa oggi, sia quello di farlo con un linguaggio al limite; per questo poco fa mi è scappato un “a questo disco non manca niente per farsi odiare”: consideratelo un complimento. Il problema con “Spiritual but profane” è che per quanto innegabilmente originale, manca del tutto di un punto di contatto con chi ascolta. Qualcosa, qualsiasi cosa. Manca di contrasto; bene e male, chiaro e scuro. Melodia e dissonanza.

I primi cinque pezzi sono ancora troppo “canzone” (“Liar” su tutte), ma non abbastanza da essere considerati comunque buoni pezzi alt rock. Il lato B ok, guadagna punti abbandonandosi definitivamente alla sperimentazione (di “Dissident” si è già detto, ma anche “Blid as a mole” vale più di un ascolto), ma ormai la bocca (e un’idea di massima) ce la siamo già fatta sul resto, ed è difficile poi cambiare in corsa. Difficile davvero. Talmente difficile che alla fine si arriva a parlare di occasione mancata. Perché i Brain In Vain sono sì un progetto interessante, ma non in questi termini. Avrei preferito un disco di, per dire, sei pezzi da dieci minuti l’uno, completamente strumentali (vedi “Expedition”), ridotti all’osso; un riff, uno solo su cui ricamare, e via fino in fondo, senza il minimo accenno di tregua. Per capirci, un album alla Colin Stetson ma con chitarra e batteria. Senza compromessi. Allora sì. Allora sì.

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La recensione Spiritual but Profane di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2012-09-20 00:00:00

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