Il percorso di una band non è quasi mai lineare. Quando implica delle svolte, possono essere brusche, e qualcuno può cadere e farsi male. Oppure, semplicemente, decidere di scendere. È il caso dei Daisy Chains, combo bergamasco partito con un garage-indie d’impatto, giunto alla maturazione con il bel disco “A story has no beginning or end”, e approdato ora a sonorità più vicine alla neopsichedelia e al grunge. Con qualche cicatrice in più: “forse diretta conseguenza del cambiamento di suono e delle rinnovate scelte artistiche, o forse solo conseguenza inevitabile del tempo”, scrive la band nella bio, raccontando come ha perso per strada i due componenti della sezione ritmica originale.
Dunque, questo ep è la linea di demarcazione tra le due vite dei Daisy Chains, come si avverte dalle nuove canzoni: lasciati da parte i tempi dinamici del disco precedente e le armonie vocali di “Much better” e “The time that we’re wasting”, con “Donors” la formazione orobica diventa più oscura, introspettiva, sfuggente. Per certi versi ricorda il suono dei Died Pretty, solo con maggiore enfasi sulle chitarre, debordanti e rugginose secondo la lezione dei Sonic Youth.
La nera silhouette del Lou Reed di “New York” (“Cut”, “Faded”) si staglia in controluce su tutto l’ep, come già faceva comunque in “A story has no beginning or end”. Rispetto al quale, qui, filtrano - volutamente - meno spiragli di luce; “Donors” ha dalla sua, però, una maggior complessità e inafferrabilità, che testimonia la crescita continua del gruppo. Questo lavoro è sì una svolta, quindi, ma condotta dai Daisy Chains con mano ferma, e nervi saldi. Ora, avanti così.
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