Lavoro ‘tipically darkwave’ che conquista per pienezza di suoni e cura. Derivativi? ‘I really don’t care’.
Come una marea che monta proprio nel pieno dell’aurora, tra le prime ombre e i buoni proponimenti per il giorno, “Persian Carpet” apre l’album con un crescendo di suoni piacevolmente sapido, molto british e con la tipica batteria controtempo new wave, echi e riverberi e una bella energia. Tastiere eighties irrompono in “Question Mark” mentre la voce vira verso certe atmosfere dark, i toni si fanno più scuri in un sorta di epicità malinconica che bene si adatta al raccoglimento notturno e alla calma che non arriva mai, una tensione evocativa che si estende per tutto il brano e non accenna a sciogliersi.
Le note si fanno più profonde, si continua a cercare tra gli spazi in bianco e nero ed è ovunque darkwave, nelle seconde linee vocali eteree e sfuggenti di “A Dream”, nella presa incisiva di “Heart Becomes A Cage” dove la sezione ritmica è la forza portante, nella chiusura di “Forever Unknown” che ben accompagnerebbe i titoli di coda di una storia infinita e complessa e scura a tratti come la nostra. Lavoro accurato e con una matrice comune, un obiettivo chiaro e tanti riferimenti: le affinità e divergenze con l’intero panorama di cupezza anni ottanta sono lampanti, ma sono francamente stanca di parlare di musica derivativa. Il disco gira bene, e questo è ciò che conta.
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La recensione The ages of dreams di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2012-09-20 00:00:00
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