La linea di confine tra la creatività e la follia è, a volte, sottilissima. Per una mente particolarmente attiva, basta un'immagine, una suggestione, per perdere la percezione esatta del punto in cui finisce la realtà e iniziano i sogni. Succede così con il disco dei Verbal, scomposizione di linguaggi non solo musicali, ma che attingono dalla letteratura o dalla televisione codificando la grammatica sonora di un irreale che prende forma.
Sin dai titoli dei brani, che fanno riferimento a personaggi esistenti o inventati di sana pianta, ritratti fatti di note che si muovono nello scenario di un post rock ai limiti della schizofrenia. Un viaggio per chi ha lo stomaco forte in un museo dell'umana disfatta, le cui sfumature sono raccontate attraverso sei lunghi pezzi. “Double D Verbal”, ispirato a un fantomatico signore del noise la cui risata sinistra risuona tra i campionamenti di Ornette Colman e delle Andrews Sisters: il risultato è un puzzle la cui coerenza sorprende, tra echi che sfiorano addirittura il post punk. Il mantra infernale di una voce inabissata nelle distorsioni delle chitarre in “Kaspar Hauser” risponde alla volontà della band, dichiarata nel comunicato, di voler disegnare con questo brano il profilo di un prigioniero che sa pronunciare unicamente il proprio nome.
È la sezione ritmica a soffocare l'ascoltatore in un magma claustrofobico, senza vie di fuga. “Coronado” è lentezza che esprime la fatica di una conquista, lo sconforto, seguiti dalla speranza di una scoperta vera o presunta, un miraggio che si perde in un orizzonte psichedelico. “Orwell” è il pezzo più sostenuto: il ritmo iniziale, che sembra riprodurre la serialità dei meccanismi di produzione in fabbrica, cede il posto dopo pochi istanti a una linea di basso marziale, perfetta sonorizzazione di un'apocalisse incazzata. “Benny Hill (hates sport)” è un gioco del contrasto che racconta il lato triste e grottesco della comicità in un'atmosfera che confina con il doom: del resto, non sono forse le disavventure altrui a farci ridere? “Kobayashi” ha nel titolo il più diffuso cognome giapponese, simbolo di un'identità collettiva in cui il singolo sembra perdersi, tra grovigli di suoni. Uno xilofono, in lontananza, sembra rappresentare la strada da seguire: ma è una strada sempre più distante in un abisso cibernetico.
Alla fine dell'ascolto, non so più se il disco esiste o l'ho solo immaginato: i Verbal hanno colpito perfettamente nel segno.
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