Il confine tra il punk e l'obbrobrio è labilissimo. Anche saper irritare è un'arte.
Sono quasi tre mesi che ascolto questo album, a intervalli regolari. E a tutt'oggi continuo a trovarmi in difficoltà nello scriverne. Sto alzando bandiera bianca, da subito, perchè davvero mi riesce difficile inquadrarle, queste Madchickens. Non tanto dal punto di vista del genere: la loro miscela di grunge, noise e (chiamiamola così) psichedelia è tanto tagliata con l'accetta quanto sufficientemente ben circoscritta. Mi riferisco ad altro. Penso ad esempio all'immagine di copertina, tanto insopportabilmente kitsch quanto stranamente conturbante, col suo lettering pacchiano e il fuxia e verde pisello da pugno nell'occhio. Rende bene l'idea del disco, 51 minuti lunghissimi, sgraziati, ripetitivi e ossessivi. Insopportabili.
Arduo, dicevo, arrivarne alla fine: i riff martellanti, costruiti su due note, ripetitivi da morire, che si rimpallano da canzone a canzone, la chitarre in feedback sparato, la voce di Valeria Guagnozzi che strilla implacabile al malcapitato di turno. E il confine tra la convenzione del genere punk (e derivati) e l'obbrobrio è labilissima, tanto che gli stessi pezzi fanno, consapevolmente o inconsapevolmente, la spola tra l'uno e l'altro (vedi "Mr. Harvey", col suo chorus ben oltre i limiti dell'ascoltabile, o "Black magic/Black allergic").
E la registrazione casereccia non aiuta, i cori male armonizzati, i suoni di batteria e basso quasi nulli non rendono giustizia del tutto a un progetto che comunque riesce, a mio modo di vedere, nei suoi intenti: risultare irritante, per prima cosa. Ma davvero irritante, di quelli che quando suonano dal vivo scazzano coi fonici o gli tirano addosso roba dai balconi vicini. E ci vuole coraggio, vero. Soprattutto nella profonda provincia italiota. Ora, non è che a Roma o Milano le Madchickens (per comodità dico "le" perchè originariamente erano un gruppo solo al femminile, ma ora hanno un batterista maschio) sarebbero osannate. Verrebbero comunque giudicate fastidiose. E così pure a Londra o a New York, a meno di non voler fare proprio quelli alternativi a tutti i costi.
Eppure qualcuno ne apprezzerrebbe la visceralità, l'intrattabilità, l'inafferrabilità uterina dei loro pezzi. Che sembrano girare a vuoto, e invece lasciano, ad ogni svolta, un piccolo taglio. Ad avere la pazienza di scavare e mettere da parte, di sopportare e tirare dritto, qualcosa d'altro viene alla luce: il seducente intorpidimento di "Fell in love", ad esempio (al netto di un tremendo effetto sulla voce, roba che non si usa più da quel dì) o l'angoscia sorniona di "Tin man" (che per non farsi mancare nulla, termina in una coda di sapore medievaleggiante, dominata da fastidiosissimi flautini stonati).
Sono arrivato alla fine della recensione, a quello che per me è (e sarà) l'ultimo ascolto di "Kill, Hermit!". E se da una parte mi sembra di aver scritto troppo, mi rendo anche conto di aver detto troppo poco, forse nulla, per farvi capire se questo è un disco che valga la pena ascoltare. D'altronde, non riesco a togliermi dalla testa che l'intento delle Madchickens fosse proprio questo.
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La recensione Kill,Hermit! di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2012-10-10 00:00:00
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