Appena 32 minuti per appurare se questi ragazzi piemontesi siano a tutti gli effetti dei piccoli geni irriverenti o piuttosto degli emeriti cialtroni dell’underground italiano. Per quanto persino nomi gloriosi dell’indie-rock internazionale abbiano fatto del DIY e del lo-fi la propria ragione di vita, qui ci troviamo al cospetto di una sottomissione talmente remissiva agli audioprogrammi open source più diffusi sul web che quasi sembra di aver a che fare con dei giovani fanatici del luddismo strumentale. Perciò affanculo gli orpelli formali, fuori dalle palle chitarre, bassi e batterie e via di frontalità lirica: questa è la sola prerogativa dei Lady Ubuntu, che si affidano a patterns elettronici preimpostati per confezionare le loro narrazioni urticanti, figlie dei grandi padri italiani del genere.
Le parole vomitate da Francesco Lonetti si vestono di nostalgica familiarità, trasudando memoria storica da ogni poro: i CCCP di “Maledetta Solitudine” e “La stagione delle albicocche” (con tanto di Lindo Ferretti citato nel testo), gli Offlaga Disco Pax che si aggirano sonnambuli tra le frequenze della ‘radiocronaca politica’ di “Sera” – forse l’episodio migliore del lotto con quella sua spietata critica all’immobilismo della sinistra che muove curiosamente dall’immobilismo artistico di Van Morrison (!) – l’ironia sanguinaria degli Skiantos presa in prestito per illustrare gli antagonismi intergenerazionali di “Non posso che tremare di fronte all’ira di funesta dello zio”, e così via disseminando citazioni qua e là, come briciole di Pollicino, in un turbinio di electropunk monocellulare. E allora, piccoli geni o cialtroni? Al prossimo album, se mai ci sarà, l’ardua sentenza.
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