L’opera prima, e omonima, dei Rakuda potrebbe ricordare lo Zibaldone di Pensieri di Giacomo Leopardi. Oppure il brodo primordiale teorizzato da Aleksandr Oparin. Un insieme indistinto di elementi vari. Un discorso indiretto libero privo di filtri e freni. Si, perché nell’Ep del trio di Davoli c’è di tutto. Cose buone e cose meno buone. Suoni interessanti ma anche gravi difetti di registrazione dell’album. Trovate ritmicamente apprezzabili e bridge smaccatamente boriosi. Liriche a volte incomprensibili e figure poetiche curiose.
Le ragioni sono probabilmente da ricercare in una eccessiva autoindulgenza da parte della band, che non ha selezionato accuratamente il materiale di Studio, finendo per inserire, all’interno della propria opera prima, tutto e il suo contrario. Il risultato, proprio per questa ragione, ne esce penalizzato, in quanto non in grado di valorizzare adeguatamente gli aspetti positivi. Per dire che i Rakuda fanno un rock noise nel quale si intravedono alcuni spunti interessanti, ma si tratta ancora di materiale grezzo, non cristallizzato in un progetto artistico definito o definibile. I Rakuda mescolano tutto senza alcuna soluzione di continuità, con un risultato che non è Frank Zappa, ma si ferma ad un melting pot non sufficientemente quadrato. Così facendo anche il motivo principale di “A. on my mind”, oppure la strofa di “Valzer sui rami”, i quali darebbero anche la misura di un buon potenziale di base, finiscono per essere solo un qualcosa che poteva essere e non lo è stato, se non sono poi supportati da ritornelli adeguati che ne esaltino l’indiscutibile carica pop, in luogo dei quali sono stati inseriti incomprensibili break e cambi di ritmo.
Non è una bocciatura su tutti i fronti, quindi. Tuttavia il lavoro da fare è ancora molto. Perché quando si fa musica è più importante togliere che mettere, sosteneva qualche tempo fa Sting. Anche se pare che ultimamente anche lui faccia esattamente il contrario.
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