Solo trenta minuti.
In trenta minuti non riuscirei nemmeno a spiegarti quali sono i motivi per cui io e te resteremo legati per sempre, come ingranaggi di uno stesso meccanismo smembrato che pure tornerebbe a funzionare se trovassimo un incastro migliore. Ai nostri automatismi sentimentali sostituisci parole mute che raccontano più di quanto facessero le folli litigate che mi lasciarono poi sola, facendo di te ciò che sei: una macchina celibe. In trenta minuti io non saprei raccontare nulla di tutto questo, lascerei parlare una melodia lontana che racconta sguardi che io non so più dire.
Eppure trenta minuti bastano a Cabeki, “macchina musicale assemblata da Andrea Faccioli”, per intrecciare tessiture sonore che (quasi) senza l'ausilio della voce umana riproducono, nel paradosso di una naturalezza artificiale, le tessere di una storia malinconica colorata di sfumature folk e alimentata ad energia elettrica.
Strumenti a corda così poco convenzionali che a malapena conosciamo il loro nome e che suonano tuttavia incredibilmente familiari. Un'armonica struggente come nei pezzi dei vecchi bluesman scritti sulla riva di un qualsiasi fiume di lacrime. Sotto la trama sonora si insinuano echi elettronici minimali (“Se quest'uomo diventasse un meccanismo”), imprevisto che annuncia l'arrivo di una catastrofe maggiore. Sono le distorsioni a caricarsi del ruolo funesto del temporale che lava via i fili di seta faticosamente intessuti dalla delicatezza degli archi, sono i fiati con le loro atmosfere plumbee a contrastare la speranza ricamata nei suoni più dolci. Come quelli che in “Il necessario ritorno” ricordano i campanellini che ho appeso alla porta per sapere quando varcherai di nuovo la soglia di casa, e il vento che soffiando li confonde fa di te Ulisse e di me Itaca, e questa musica è il sirtaki che ballerò ancora una volta quando ti vedrò arrivare. Unico pezzo in cui un canto lontano, proveniente dalla viscere della terra, accompagna la musica è “”, ma la voce non è mai preponderante rispetto al resto, come fosse uno strumento tra gli altri strumenti.
Uno degli aspetti più commoventi di questo disco privo di parole e colmo di narrazioni è la poesia che nasce leggendo in sequenza i titoli delle canzoni - oculatamente scelti poiché ogni brano diventa sonorizzazione perfettamente congegnata di quegli input emotivi - un haiku che racchiude il senso tutto dell'ingranaggio meraviglioso che funziona sempre meglio, ad ogni nuovo play.
“Se quest'uomo diventasse un meccanismo / il necessario ritorno / verso il ronzio remoto / di un ingranaggio che si perde/ fra elettrodi di seta blu / alla banalità di un valore / negazioni che si negano / la bellezza pura e sterile della semplice / diapositiva si ricorda / l'ultimo degli uomini”
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La recensione Una Macchina Celibe di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2013-05-17 00:00:00
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