Molti ormai pensano al blues come a un genere ammuffito, autoreferenziale, sempre uguale a se stesso. Ne si parla come di uno stile in cui non è più sperimentabile alcuna evoluzione, in cui la perfezione è stata raggiunta coi vari Muddy Waters e B.B.King e il massimo che può succedere è che arrivi uno Stevie Ray o un Joe Bonamassa a rispolverarli un po'. Ora, questa componente in minima parte si basa su fatti reali, ma basta citare il lavoro di personaggi come Jon Spencer e lo stesso Jack White per ribaltare il discorso.
Anche in Italia molto si sta facendo in questo senso, pur non avendo ancora un personaggio del calibro dei due sopra. I King Howl Quartet, sardi al loro primo disco, sanno bene di costa sto parlando. Questo loro esordio eponimo potrebbe e dovrebbe essere etichettato come stoner da chi ha orecchie più avvezze a sonorità "contemporanee" (dai Nirvana ad oggi, per dire); ma ascoltato da chiunque altro svela l'appartenenza, fino al midollo, al blues. Sin dalle prime note.
Non serve neppure guardare la scaletta - in cui figurano tre classici come "Hard time killing floor","Trouble soon be over" e "John the revelator"- per capirlo, le radici del sound che ha dato origine a tutto spuntano evidenti dal terreno e si arrampicano su quel muro fatto di chitarre all'apparenza tanto attuali. Penetrano nel profondo di quella calce tra un mattone e l'altri che è la voce di Diego Pani, mettendo in bocca a un ragazzo sardo di neanche trent'anni cresciuto a rock e grunge le stesse vibrazioni che hanno attraversato migliaia, milioni di corde vocali in più di un centinaio d'anni. E che continuano a ripetersi e rinnovarsi, non di rado contemporaneamente. Anche grazie a un (bellissimo) disco come quello dei King Howl, e a brani personali e travolgenti come "Mornin'", "Bleedin' mouth" e "Drunk".
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