Nel recensire il disco d’esordio degli Ultraviolet, il primo pensiero che viene alla mente è relativo alle difficoltà intrinseche che un gruppo/artista incontra quando decide di fare pop in Italia. Soprattutto in considerazione del fatto che una scelta stilistica di questo tipo o si rivela vincente nel tempo (si veda alla voce Subsonica, Carmen Consoli, Max Gazzè, etc.), oppure l’oblio è garantito (in questo caso si ricordino Soon, Teclo, Brat, SuperB e tanti altri nomi).
Eppure il quartetto barese, una volta incontrati i favori della loro etichetta, pubblica il primo album carico, com’è giusto, di speranze. Peccato, però, che all’ascolto dell’opera si rimanga perlopiù indifferenti, quasi incerti nell’esprimere un giudizio che negativo non può essere - perché tutto suona come deve suonare -, ma di certo neppure positivo - perché qui dentro manca completamente l’idea di ‘canzone’.
Il risultato, perciò, può essere solo definito ‘ibrido’, alla base di più ascolti che denotano il tentativo, da parte della formazione, di concentrarsi più sui suoni che su quanto, invece, deve costituire necessariamente la ‘sostanza’. Quasi che si tendesse alla perfezione - è non penso sia casuale la scelta di masterizzare il disco in quel di Londra - dimenticandosi che la materia pop necessita (almeno) di ritornelli efficaci e belle melodie. Tutti fattori che qui dentro mancano, pur trovando una voce bella, ispirata e ‘in primo piano’ (quella di GianClaudia Franchini), chitarre pulite ma poco incisive (quelle di Daniele Quarto), una sezione ritmica puntuale ma insignificante (quella di Luca Valchirio Serpenti e Antonio Mastrorilli) come gli inserti di elettronica.
Dispiace scriverlo, ma va da sé che qui tutto suona completamente piatto, con pochi picchi (“Spazi segreti” e “Vitamine”) e molti pezzi prescindibili. Mi auguro ci sia modo di recuperare nella prossima occasione, siccome al momento il materiale ha tutta la parvenza di apparire quantomai insipido.
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