Evocativo, questo è il primo termine che può venire in mente ascoltando questo lavoro. O forse il più scontato. Si, perché a lasciarsi cullare dalle note sparse in questa sesta fatica balenano davanti agli occhi immagini come: abbracci alla stazione, lunghe camminate pensose nella nebbia, lacrime alla finestra appannata, carezze tradite, amori soffusi…
Il nostro compositore la sa lunga, ha studiato bene la lezione dei compositori di colonne sonore che sono venuti prima di lui e, forte di una conoscenza (consapevole o inconsapevole) di semiotica musicale di genere, quando compone, lo fa usando i segni che gli illustri predecessori hanno inciso sulla pietra delle nostre frequentazioni, prettamente cinematografiche direi. E riesce a farci rivivere appieno sensazioni ormai da tempo codificate.
Oltre ai segni, si sentono ad un ascolto più attento, anche le inflessioni dialettali con cui sono stati declinati. Il dialetto di Nyman per esempio, nella costruzione dei passaggi orchestrati da piano a forte su una base melodica. O il dialetto di Ludovico Einaudi, quando si mette al piano, con costruzioni il cui lento sviluppo melodico crea quello che in letteratura potrebbe esser definito un pathos da accumulo.
Anche i suoni son quelli tradizionali per un certo tipo di scrittura, quelli che ci si aspetterebbe e non stupisce più di tanto l’introduzione di qualche synth, declinato in salsa Jarre. A volte però l’aspettativa diventa troppa e in certe aperture ci si attenderebbe un’intera orchestra e invece, invece ci si trova con una sezione d’archi ridotta che cerca di sopperire per quanto possibile.
Le parole ci sono, persino con influenze dialettali, i suoni in parte ci sono, cosa manca? Manca forse una grafia fortemente personale, propria ed abbastanza salda su cui cominciare a poggiare delle basi. Una grafia che proprio perché conscia di quanto scritto nel passato ci si sappia staccare da questo e renda meno scontato lo sforzo del prolifico compositore.
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