“Il blues è vivo e gode di ottima salute” ha scritto tempo fa qualcuno di importante. Fluttua nella black music, nel rap, nel funk, nell’elettronica, nella disco e sopravvive persino nel pop di consumo. Ma il più riuscito sodalizio rimane indiscutibilmente quello che lo lega al rock: quest’ultimo ha influenzato il blues più elettrico dei ’70, senza il quale, a sua volta, il rock di oggi non esisterebbe. La giovanissima band in questione lo sa benissimo e realizza un Ep, "First step", di intonazione bluesrockeggiante di stampo Seventies. Un po’ Creedence, un po’ Jefferson Airplane, pochi orpelli, arrangiamenti scarni, formula simpatica e il piatto è servito. Ma quando lo assaggi, ti concentri a tal punto sugli ingredienti da perdere il gusto d’insieme. Così arrivi alla fine e ti convinci che certe portate non vanno interrogate ma semplicemente godute.
"Going to play some rock ‘n’ roll" inizia il rito della degustazione musicale in cui il sapore rimanda ad altri assaggi. Nessun aroma pronto a distinguirsi, nessun elemento di appetibile novità, ma il risultato che amalgama pastosamente bues e rock di wha wha e americanismi non è male. Un po’ acerbo, tutto sommato accettabile. Il successivo "Preatty little baby" non convince per niente e il retrogusto riffato appesantisce la portata. "Deep cut" introduce il più tradizionale piatto blues statunitense e "Blue eyes", ballata armonica e impertinente assolo di chitarra, conduce all’epilogo del menù dove, dulcis in fundo, ci attende la cover "Helter Skelter" dei Beatles dai contorni graffianti e sporchi. Buon pezzo.
Ingordi o sazi al tavolo degli A step to delirium? Sempre ingordi di musica, proviamo tutto quello che la band ci offre con curiosità e spirito critico. Il risultato è godibile. Sazi e appagati forse quando i ragazzi definiranno meglio gli ingredienti, provando e testando la ricetta.
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