“Rust”, alla luce dei fatti, è un album acustico, elettrico, elettronico, saltuariamente rappeggiante, indie, melodico, blues, country, strumentale, in italiano, in inglese...
“Rust” è un disco d’esordio. La firma, il nome in copertina, è quello dei Place To Be, band ligure formata da musicisti tutt’altro che esordienti: Lucio Zacchia (voce), Emanuele Rossi (chitarra), Claudio “Keyo” Ognibene (scratch e beat) e Mariano Dapor (violoncello). Funziona così quando ci si presenta, no? Al nome si associa un volto, così come alla copertina un disco. Però… però c’è che il volto dei Place To Be, il volto di “Rust”, non è solamente uno; e non sono nemmeno quattro: “Rust”, alla luce dei fatti, è un album acustico, elettrico, elettronico, saltuariamente rappeggiante, indie, melodico, blues, country, strumentale, in italiano, in inglese, intimo ed esplicito. Insomma, una lista bella cicciona. Dodici pezzi originali in scaletta, più una cover di “Hard to handle” di Otis Redding e una bonus track, “The Ballad of King Orpheus”, originariamente pensata per fare da colonna sonora ad un albo di Dampyr, noto fumetto di casa Bonelli.
Scrittura circolare: il disco si apre con “Sick & Happy”, e si chiude con “Happy & Sick”, due (belle) sorelle gemelle che nella vita si arrangiano in modi differenti. Nel mezzo tante suggestioni, di nuovo tanti volti. Lavorando per associazione - cosa che, parlando di volti, viene abbastanza facile - mi sono venuti in mente, e li elenco in ordine di apparizione, i faccioni di: Mark Hollis, tutti i Balmorhea messi in fila, e Keith Kenniff (aka Helios). Perché per quanto i Place To Be siano obiettivamente ostici da collocare in uno spazio preciso, posso comunque dire di aver apprezzato in modo particolare il volto (e dai…) più strettamente acustico, quasi classico, messo in mostra dalla band; e mi riferisco a pezzi come, guarda caso, “Place to be” e “Rust”, che poi sono nome e cognome del nostro interlocutore di forma circolare. “Place to be” e “Rust”: il primo un brano strumentale, molto emotivo, molto cinematografico (molto, molto bello), un po’ Heliòs, appunto, un po’ Balmorhea; il secondo un buon mix di acustico e sintetico, e cioè quello che mi pare di aver capito essere la base vera del progetto stesso. A Mark Hollis invece sono arrivato perché la voce di Lucio Zacchia qui e là lo ricorda (tipo nella titletrack o seconda voce del bel chorus di “If you really knew me”). Non avrà la stessa eleganza, d’accordo, ma sarebbe comunque molto interessante vedere i Place To Be alle prese con una cover di “Such a shame”. Per il resto, come già accennato, tante contaminazioni destinate a generare talvolta pezzi interessanti (“Hard to handle”, “Like in a videogame”) tanto quanto, inevitabilmente, qualche esperimento non sempre riuscito (“Ideologia perversa”, rap in italiano con ritornello in inglese, un pezzo che personalmente ho trovato troppo avulso dal contesto). Che tradotto si scrive: se è vero che chi non prova non sbaglia, e altrettanto vero che è proprio sperimentando e mettendosi in gioco che si ottengono i risultati migliori.
Ecco, forse il discorso è che in questo mare di suoni i Place To Be devono ancora trovare, anzi, meglio, devono scegliere quello che li rappresenta al meglio. Che poi è una cosa che ci riguarda un po’ tutti, no? Intendo la ricerca di chi siamo, del nostro vero “volto”. I Place To Be per ora ne hanno molti, ma come inizio va più che bene anche così.
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La recensione RUST di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2013-09-05 00:00:00
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