Nove sezioni di un cuore devastato da esplosioni atomiche.
Come una bobina che si srotola in un vecchio cinema. Il film invece è uno di quelli moderni, con rapide variazioni che non capiamo del tutto, ma che ci piacciono sempre.
Una delle cose che ho imparato recentemente: ad ogni secondo di proiezione sullo schermo, corrispondono venticinque fotogrammi. Venticinque immagini ferme, identiche tra loro, che attraverso un movimento automatico come quello del cinematografo che gira spalancano ai nostri occhi il miracolo dell'azione.
"Kleiner mann”, primo album degli Hardcore Tamburo, risponde in maniera eccellente a questa logica. Suoni ripetuti, uguali a se stessi, come immobili fotogrammi che si susseguono, guidati dalla linea sonora rigida, quasi automatizzata delle percussioni industriali. Eppure ciò che ne risulta è uno scenario mobile frammentato in mille sequenze variabili, spezzoni di un film moderno che non capiamo del tutto, ma che ci piace come sempre.
La voce è, nella maggior parte dei pezzi, uno strumento come tanti altri. Nascosta tra sapienti distorsioni, il suo apporto consiste spesso nella reiterazione di un solo verso. È il caso di “Di sangue e sudore”, in cui i synth introducono i tamburi metallici e un vocalizzo costante incornicia le poche parole pronunciate da un io robotico per poi cedere il passo ad un'altra filastrocca oscura, quasi un invito ad unirsi alla setta dei sacerdoti del ritmo. In “Gute nacht” un burattinaio notturno guida schiere di addormentati contandone i passi uno ad uno sulla tabula rasa dei sogni. La loro meta: visioni meccaniche di manichini che danzano su basi dark electro. E ancora in “Full of you” l'ossessione è sovrana, un mantra maledetto sostenuto da martelli ipnotici. Solo oltre la metà del brano si stacca dal coro la distorsione selvaggia, quasi a voler perforare le pareti della scatola cranica per mostrare nuove visioni. E quelle visioni accennano inserti melodici che cullano l'ascoltatore fino a farlo precipitare, nuovamente e senza preavviso, nell'ombra. L'apertura verso suoni più miti, seguita dal ritorno negli scenari più scuri, è comune ad altri due pezzi dell'album. La prima è la titletrack, in cui ansimi, latrati e colpi pesanti lasciano spazio ad una linea di chitarra che soccombe poco dopo nel crescendo noise. La seconda è “Move and fight”: un basso sotterraneo pulsa sovrastato da suoni acuti, danza tribale elettrificata attorno a lotte imminenti e strategie nascoste. Un campanello annuncia l'inizio dello scontro ed avvia uno stralcio musicale che alleggerisce la tensione precedente.
In altri brani invece la linea vocale rivendica la propria importanza. “On the road again” sorprende con il suo mood quasi scanzonato, una versione svagata di un pezzo industrial. Ma l'unico pezzo in cui il cantato torna alle sue sembianze umane, svestendo i panni robotici di cui si adorna altrove, è il manifesto della band: al centro esatto di “Kleiner Mann”, “La canzone del rumore”, già presente in “A. I. U. T. O.” dei Sick Tamburo, supporta nel testo la volontà di fare musica con strumenti non convenzionali. Un altro messaggio importante è affidato a “Htc single” in cui la parola “comunicazione” viene ripetuta oltre i limiti della sopportazione, quasi a sottolineare quanto gli stimoli esterni sappiano diventare bombe di cui non avvertiamo più nemmeno l'esplosione, sommersi come siamo da mille sollecitazioni spesso inutili. Gli Hardcore Tamburo sono in questo senso gli Andy Warhol della musica, polemici riproduttori seriali di suoni.
Il pezzo più bello è “Cry”: il lamento di una chitarra introduce al regno dei tamburi privi di pietà sul cui dorso metallico precipitano colpi imperiosi e regolari con l'infamia di un pianto a dirotto.
E da quel pianto, gli Hardcore Tamburo sanno ricavare canzoni che non sono davvero canzoni. “Kleiner mann” è la raccolta di nove sezioni di un cuore devastato da esplosioni atomiche. Una richiesta di aiuto e, allo stesso tempo, un rifugio sicuro nell'autismo emozionale del sempre identico, del sempre uguale a se stesso.
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La recensione Kleiner Mann di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2013-01-29 00:00:00
COMMENTI (6)
per essere precisi (fino alla petulanza) l'azione avverrebbe lo stesso, ma al rallentatore: a scatti di un secondo e un film di due ore per vederlo fino alla fine ci metteremmo 50 ore!! ma non voglio certo criticare la D'Orazio, che fa delle recensioni meravigliose. Il disco? Personalmente lo trovo bellissimo!
Bello! un caro saluto al tuo proiezionista di fiducia! ;)
Luca
Mi sono ulteriormente informata presso il mio proiezionista di fiducia e in effetti le immagini non sono identiche, ma presentano differenze infinitesimali pari per l'appunto a un venticinquesimo di secondo, talmente piccole che i fotogrammi possono essere considerati ad occhio nudo perfettamente identici. vi ringrazio in ogni caso per la minuziosa attenzione nella lettura della mia recensione ;)
Non è cosi, :)
Se fosse cosi non si potrebbe fare lo Slow motion. Se pensi ai film vecchi, che sembrano andare più veloce e a scatti è perchè c erano meno fotogrammi al secondo.
Fidati.
Ciao
da quanto ne so, ce ne sono 25 identiche, e poi altrettante simili, e poi altrettante simili fino a quando l'azione non è completamente svolta :) 25 fotogrammi formano un solo istante che insieme ad altri istanti permettono l'illusione del movimento :)
errata corrige: sesta riga [le immagini dei vari fotogrammi non sono identiche,(sono simili ma non identiche) altrimenti non avverrebbe l'azione] ;)