Elevarsi per precipitare. Gli Edible Woman pubblicano l'ennesimo album irripetibile
E poi tu mi hai detto: “Vieni qui. Chiudi gli occhi e addormentati tra le mie braccia. Non sarà come quella volta che. O come quell'altra volta. Non rovinerò tutto. Avrò per i tuoi sogni la cura che non ho mai avuto. Non ti farò false promesse e non proverò ad ucciderti.” Eppure so che quando mi avrai condotta al vertice, mi lascerai cadere.
Ed è per questo che non so resisterti.
In un immaginario rapporto d'amore con “Nation”, album degli Edible Woman, le cose andrebbero così: deliziose impennate e rovinosi crolli. Le voluttuose forme della lentezza addormentano i sensi soprattutto in “Heavy skull” e “Will”. Due pezzi – non a caso posti all'inizio e alla fine di questo spiazzante percorso musicale – che costituiscono facce diverse del medesimo ipnotico intento. Nel primo, le note della chitarra si aggrappano l'una all'altra con una tenacia tanto disperata da ricordare vagamente alcuni brani dei Codeine. Il secondo sfiora con delicatezza caratteristiche proprie del folk cantautorale. Ma gli Edible Woman sono molto più di questo, ed esprimono il meglio di sé nel contrasto tra tali dolcezze e uno spirito rude e funesto che manifesta uno dei suoi volti, nel crescendo di inquietante psichedelia romantica di “Safe and sound”, in cui il basso riproduce l'intensità di un'attesa straziante. Come se le sue corde fossero dita che tamburellano sulla superficie liscia del silenzio.
"Psychic Surgery” è un lampante esempio di violenza psicologica in cui un riff insistente e una chitarra elettrica acida lottano contro una sezione ritmica che scava nelle orecchie come la goccia nella tortura cinese, mentre nella voce riecheggiano improvvisamente i Joy Division. In “A hate supreme” l'eleganza dei Doors che invade i suoni psichedelici dell'organo duella con una violenza sonora paragonabile a quella degli Stooges, con effetti disorientanti, incantevoli ripetizioni e variazioni su temi disparati e disperati. Protagonista di “Cancer” è un ronzio di sottofondo che fa da contraltare ad accordi che girano in tondo. L'esplosione è qualcosa che non ti aspetti e che pure accade, un giro accordi cattivi che, proprio quando credi di aver capito tutto della canzone, cede il passo a un nuovo cambiamento che spiazza. È di nuovo lentezza che però ormai non rassicura, e gli Edible Woman sono ormai un branco di leoni affamati che con assoluta calma osserva la preda prima del nuovo attacco, una danza di conquista dai gesti misurati. Infine ci stupisce ancora il silenzio in cui il brano sfuma.
“Money for gold” ha un attacco elettrico dalle ombre krautrock, i fiati suggeriscono l'idea di una salita verso atmosfere così rarefatte da affaticare il respiro. Si arriva a “Nation”, sussurri nell'ombra e giochi che oscillano tra doom e slow core. “Call of the west / Black Merda” ha un riff sornione e irriverente, la voce è un richiamo lontano o una pura espressione interiore che si fa spazio tra i colpi della batteria che diventano al contempo sghembi e serrati, quasi come fossero degli ostacoli che si frappongono tra un'idea e la sua violenta liberazione all'esterno. Quando torniamo all'approdo dolce di “The action whirlpool” ormai non ci fidiamo più di questi Edible Woman. Perché con questo ascolto ci hanno elevati e allo stesso tempo ci hanno abbandonati indifesi sull'orlo del burrone della follia.
Sarà per questo che il loro album è così dannatamente irresistibile.
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La recensione Nation di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2013-03-16 00:00:00
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