L’idea di fondo era chiara: rifarsi alla pathancka, rinverdire i fasti dei primi Manonegra a forza di suoni acustici, confidando nel solo piccolo aiuto di tastiere e basso. Un’idea rispettabile, che i Los Refusè sono riusciti a piegare al loro credo stilistico e a diluire nei quattordici episodi presenti all’interno di “Run rebel rabbit run”, la loro opera prima. Certo, mancano il carisma e lo spirito casinista di Manu Chao, latitano quel po’ di ironia e di quell’antagonismo freakkettone e globalizzato che passava all’interno di “Clandestino” (qui siamo ancora a discutere dell’ex premier piduista e su quanto siano brutte a cattive le sue televisioni…), ma non si può avere tutto dalla vita. E, soprattutto, il discorso è un altro. Eccolo: se da una parte è impossibile negare che qualche colpo sia andato a buon fine (l’opener “L’arte di non dire niente”, che almeno un po’ di caciara la fattura, l’apprezzabile ballata “La storia di Paolino”, “The night before” con i suoi lontani echi celtici), e dall’altra siamo costretti a fare i conti con almeno un paio di pezzi dalla bruttezza imbarazzante (“Frasi fatte” e “Lips”, ma c’è da dire che il cantante ci mette del suo), per il resto si naviga a vista con canzoni che non accendono e non si accendono. Noia, per farla breve, noia inesorabile in grado di gettare sul dischetto una cappa di piattezza dalla quale è impossibile fuggire. Sarà per la prossima volta. O almeno la speranza è questa.
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