Se sei un cantautore e tiri fuori un disco dall’andamento vivace e a un certo punto ti metti a pontificare che “le canzoni allegre non servono a niente”, allora i casi sono due: o la tua fonte di ispirazione è il Partito Democratico oppure ami i paradossi e tutto quel che ne consegue. Pur non avendo conoscenza diretta di Tommaso Di Giulio, la seconda ipotesi appare come la più plausibile.
Paradossale un titolo che è tutto un programma, paradossali gli sforzi per dimostrare che il blues è nelle tue corde, che la new wave – specie se annacquata quel po’ che basta – non ti dispiace se poi fai di tutto per risolvere la questione in una bolla pop. Che, in fondo, è la parola chiave per disquisire su “Per fortuna dormo poco” e sulle sue dodici canzoni perfette perfettine, immediate, rotonde, aggraziate, allegre, ironiche, volendo persino semplici ma non troppo. Un pop che non gira attorno a se stesso, che vira attorno ad arpeggi folkeggianti, trombe davisiane, dolcezze assortite, elettronica tagliata a pezzettini, archi discreti, testi ai confini della genialità (“Il tuo animale preferito è il fenicottero: avrei dovuto capirlo che eri un tipo complesso”), con leggerezza sparsa quasi ovunque, certo, anche se agitata da un gusto surreale e a volte straniante.
Di Giulio si inerpica tra i suoi miti dichiarati come Max Gazzè e Franco Battiato, gioca, ma poco poco, a fare il verso a Dente (con la blueseggiante “Digiuno”), tanto che i suoi sembrano movimenti da veterano della scena indie. Cosa, peraltro, nemmeno troppo lontana dalla realtà: a parte le esperienze e le autoproduzioni di fine decennio, a dimostrarlo c’è soprattutto la vittoria a Musicultura 2012, un premio arrivato non per caso, un’affermazione che avrebbe tolto il sonno a chiunque, non certo a Tommaso Di Giulio. Beh, insomma…
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