Music or just sound? Questo è il problema! Tanto che il lavoro dell’enigmatico Ømäl lascia insoluto l’interrogativo.
Musica elettronica composta da campioni, loop, pattern ritmici: 4 parole in tutto il disco. Strutture ripetitive ed estrema dilatazione del messaggio. Suoni sintetici, non suonati, freddi, gestiti come in una catena di montaggio; poco significato oggettivo, ma forse molto margine per l’interpretazione soggettiva.
Un gioco, un esperimento, un campionario di suoni per tastiera, un insieme di idee in cui a nessuna è data la possibilità di vivere e splendere di luce propria: una colonna sonora forse? O forse è la vita moderna ad essere un sopporto video per la musica di Ømäl?
Sta di fatto che davanti ad un prodotto del genere la prima domanda che ci si dovrebbe porre non dovrebbe essere: che musica è questa? Bensì: perché e per chi si fa questa musica?
Prima di dire che 42 minuti di musica senza testi, ritornelli, strofe sono noiosi e forse anche pretenziosi, chiediamoci perché certi artisti comunicano così e come mai la cosa ci stupisce. Forse che gli antichi Greci andassero in giro a canticchiare amabili motivetti sulla vespa e sui colli bolognesi? Forse che in Amazzonia i riti tribali vengono scanditi da singoloni/tormentoni? Niente di tutto questo, naturalmente. Per alcune culture (al giorno d’oggi forse sarebbe meglio parlare di sottoculture) il suono non è simbolo, non è mezzo, non è glamour, non è classifica di vendita, non è passatempo: é significato. E basta!
Ed ecco, forse, la risposta all’interrogativo di partenza: per Ømäl, musica e sound sono la stessa cosa. Non ci vuole dire niente se non che quello è stato il suo viaggio e che lui la vede così. Poca pretesa, si può obbiettare, ma di certo nessuna boria e nessun fastidioso intento didascalico. E’ già qualcosa…..
Dal punto di vista più strettamente musicale è il minimalismo il punto di incontro delle 8 tracce. Pochi suoni e tutti elettronici, poca naturalità e molto retrogusto futurista. Mi sembra così chiaro che, a questo punto, può avere poco senso parlare dei singoli pezzi, da leggersi, piuttosto, nel loro insieme. Ciò non toglie, comunque, che alcuni abbiano più appeal di altri: la prima “Hanging to the tail of a blind cat”, ad esempio, ha un inizio molto affascinante con la batteria che entra controtempo e ci cambia i riferimenti in corsa. Altre rimangono più anonime, alcune, infine, sono quasi fastidiose nel loro tentativo di donarci suoni a tutti costi fuori dal comune (parlo, ad esempio, di “What I think when I’m walking on your empty heart” e del suo lacerante stridere). Eppure, nonstante ciò, e nonostante io non sia un incallito ed usuale ascoltatore di questo genere di prodotti, apprezzo il tentativo di ingenerare dubbi, di porre l’ascoltatore davanti a delle questioni: apprezzo la voglia di destabilizzare un mondo sonoro che oggi, troppo spesso, si adagia e non cerca più. Amo chi tenta di dare nuove valenze alla musica e si pone la sfida di decontestualizzarla, destrutturarla e farle assumere nuovi significati.
Forse il piattume delle top ten sa anche portarci indirettamente degli effetti benefici: infatti vedo sempre più folta la schiera di coloro i quali non temono il giudizio impietoso delle masse e si lanciano in voli pindarici, a volte poco godibili ma, di sicuro, coraggiosi ed ispirati da un’Idea. Proprio su queste pagine ho recensito di recente progetti come La Mamoynia e Jadmx, progetti che testimoniano quanto sia forte la voglia di cambiare rotta e di approdare su nuovi lidi.
Nuovi modi di intendere la musica, nuovi modi di suonarla e proporla ma anche nuovi modi di ascoltarla: l’epoca di internet si nutre anche di questi apporti. E piano piano ci si indirizza verso un nuovo sistema…
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La recensione Tha last words of a genius… di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2002-12-02 00:00:00
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