Svanito, inevitabilmente, l'effetto sorpresa dell'esordio, nutrivo qualche timore sul fatto che Il Buio riuscisse a replicare i risultati dell'esordio, vuoi per la prova (purtroppo) incolore all'epoca del MI AMI 2011 e vuoi per un atteggiamento inconsciamente nostalgico. Ci avevano però già pensato con il 7" "Via dalla realtà" a ribadire che la loro caratura fosse comunque rimasta invariata, rimettendo in circolo la giusta dose di fiducia. Gusto per capirsi, le mie aspettative vertevano sulla capacità di mostrare che il quintetto fosse ancora arrabiato e sapesse esprimere questa rabbia con la stessa veemenza e la stessa potenza lirica che caratterizzavano fortissimamente l'ep del 2010.
"L'oceano quieto" mette in fila 10 tracce e, sono sincero, non fulmina al primissimo ascolto, pur mantenendo inalterato lo stile dei vicentini. Tocca quindi abbandonarlo per poi riprenderlo quando si è di nuovo pronti a rimettersi in discussione, nel senso di essere disposti a farsi travolgere emotivamente. Perché, nonostante l'approccio chirurgico a livello compositivo (sono ancora più quadrati di quanto già non lo fossero), l'album si rivela una scossa emozionale; e sono ancora le liriche affilate a fare breccia, fotografie di un "presente infinito" al quale siamo sottomessi spesso senza accorgercene. Come quando in "Marionette" si racconta la storia di Mario, ipotetica evoluzione di un personaggio pirandelliano che a un certo punto rifiuta la "way of life" che aveva inconsapevolmente (?) scelto e si ribella negando tutto ciò che è stato; però la sconfitta è collettiva, perché dopotutto "Mario era la ricca signora che stendeva mille calzini da rammendare / Mario era l’impiegato d’azienda che ogni mese cambiava cellulare / Era il giovane giornalista che si vestiva da giullare / Era il politico, l’insegnante o l’operaio da ammazzare".
Il Buio continua quindi a raccontare, con una lucidità disarmante, quel "pensiero unico" che, volenti o nolenti, regola a fasi alterne i processi sociali, scontrandosi spesso con le contraddizioni della natura umana (leggere attentamente il testo di due canzoni da brividi come "Da che parte state?" e "Nel vento freddo"). E non è un compito per niente facile, perché il rischio della retorica è costantemente dietro l'angolo, ma i cinque di Thiene sanno come smarcarsi, perché la loro urgenza di raccontare ("E noi stupidi quanto basta per non mentire / E noi stupidi quanto basta per usare parole più grandi di noi / Continueremo ad annoiarti con i nostri "noi"") il "presente infinito" di cui sopra è - per fortuna - intatta come ai tempi dell'esordio. E questo era l'unico sentimento che avremmo voluto provare, non altro. Bravi ragazzi.
"Siamo naufraghi con il mezzo sbagliato nel posto sbagliato / Viandanti in bici su binari perduti / E il futuro dove cazzo sta?"
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