Registrato in presa diretta, editing al minimo, riversato su nastro. Detta così sembra chissà cosa, ma i tre quarti dei dischi che escono oggi nascono esattamente in questa maniera. “Rivoluzione” esce due anni dopo “La maledizione sta per arrivare”, il disco d’esordio, con il quale condivide una sostanziale affinità sonora; si parla sempre di rocchenroll di matrice brit, per quanto i tratti siano oggi più smussati. Dal punto di vista concettuale invece, andando quindi al succo della questione, i Valium parlano, appunto, di rivoluzione. Rivoluzione che però, si badi bene, non significa necessariamente innovazione: qui dentro, va da sé, ci sono pezzi sul modello degli Oasis di “Definitely maybe”. Era il 1994, diciannove anni fa. Che per carità, va benissimo: un ottimo punto di partenza, però… però sono passati davvero diciannove anni, e nel frattempo di gente che ha provato a fare l’Oasis ne abbiamo vista, e soprattutto sentita, tanta; ma tanta tanta. Che cosa può dire ancora questo sound oggi che già non sia stato detto? In che modo può un disco brit pop, per così dire standard, essere considerato una rivoluzione? E poi ripeto: prendere gli Oasis come punto di partenza è una cosa più che legittima. L’importante però è che poi ci si costruisca sopra qualcosa.
L’apertura è riservata alla titletrack, “Rivoluzione”, un pezzo interessante, un mix gospel-indie-pop-alt-brit (…) spigliato, che ricorda da vicino i MiSaCheNevica (la timbrica della voce è quella), ma in versione meno affilata. Cosa che “Razor” invece riesce a essere anche abbastanza bene già dal nome: secca, diretta; riff, basso e batteria. Costruita in modo minimale, un pezzo che funziona proprio grazie alla sua semplicità. Semplicità che da punto di forza si trasforma, purtroppo, quasi immediatamente in debolezza in “Io sono un punk”, l’episodio forse più ingenuo del disco; e mi riferisco sia alla costruzione, al suono generale del pezzo, ma soprattutto al testo: “Non credo in Marx / perché il mondo non deve ostentare alcuna posizione / Io sono un punk / perché sono uno che sputa e distrugge la tradizione / Sono da recuperare / Sono un punk / Io sono un punk”. E le cose non cambiano con la successiva “L’uomo che avvolge i suoni”: intro clamorosamente Oasis, sviluppo debole affidato a una melodia che sembra non decollare mai e a un cantato “molto poco ispirato”, mal supportato da un testo ancora per nulla convincente (“Lui in una fiaba chiuso è / Si droga dal ’93”). Idem “Vivi detestandoti”, che però gode di un suono migliore e, finalmente, più personale (più punk in senso stretto, più libero). “Cuore di Rubik” è una ballatina stralunata con qualche buona freccia al suo arco, tipo i cori sul ritornello o l’organetto di fondo e il finale con assolo (genere Natalino Gallagher) bello grezzo. “15 anni” di frecce buone invece non ne ha: “Io mi ricordo quando avevo 15 anni / volevo essere il musicista per scopare / mi sarei fatto anche un attaccapanni / e c’era una sola cosa a cui pensare”. Mmh. Più che di fare la rivoluzione (o continuare ad esserne testimoni: spirituale o fisica che sia) viene voglia, a questo punto, di tirare qualche somma, giusto perché gli ultimi cinque pezzi in scaletta non cambiano la situazione.
Una situazione che, in definitiva, vede i Valium alle prese con un modo di fare musica creativamente sterile. I pezzi non convincono quasi mai, vivono di luce riflessa ricalcando un sound improprio e raccontando storie fin troppo semplici, ai limiti del luogo comune. La rivoluzione promessa dal titolo del disco è dunque da ricercare esclusivamente nei Valium stessi, nella loro storia, nel loro modo di essere che parrebbe essere stato… rivoluzionato. Parlano di golpe degli emarginati e dei poeti dagli occhi luccicanti; dicono di non essere interessati ai bilanci, ma all’espressione, dalla spiritualità Sixties alla potenza degli anni ’90. Premesse ingombranti che, inevitabilmente, finiscono per non trovare conferma nella realtà dei fatti. Loro saranno anche cambiati - e la buona volontà, così come l’entusiasmo, non si mettono mai in discussione - ma la musica per noi è sempre la stessa.
P.s. Così, per curiosità: ma i “Ministri a cui si vuole dare fuoco” in “Syd + Lou Barret”, sono i Ministri “Ministri”? Il gruppo? No perché la cosa, ammetto, mi ha fatto l’effetto di un coppino di quelli a tradimento. Può anche darsi che abbia frainteso.
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