Occhio: questo è un disco spiazzante. Al primo ascolto sono rimasto disorientato. E anche al secondo. Non riuscivo a mettere in relazione le diverse anime del disco: quella iperdistorta, che gioca tra psichedelia e pesantissimo hard rock; quella melodica, spesso memore di canzonette anni 70, della lounge, del tropicalismo tanto amato da Cavallaro (ne è un vero intenditore), del calypso e in generale di climi tanto latinoamericani quanto del Sud degli States; quella citazionista, che fa affiorare, per lo spazio di qualche battuta, frammenti di Lucio Dalla (“Il cucciolo Alfredo”, velocizzato, affiora in “Non essere visti”), Mogol (al testo della battistiana “Supermarket” si allude in “Meraviglioso errore”), Roberto ed Erasmo Carlos via Ornella Vanoni (l’inizio di “Distanze” cita quello di “L’appuntamento”), solo per fare qualche esempio. Il tutto ammantato da chilate di reverbero, che rendono estremamente vicini eppur lontani, come provenienti da una qualche strana dimensione (il passato? Un mondo parallelo? Il futuro?) voce e suoni di questo weirdo “Caulonia Limbo Ya Ya”. Eppure proprio inquadrare e distinguere i tasselli delle molteplici ispirazioni che stanno alla base di questo album mi ha aperto la strada per capirlo ed amarlo.
In fondo lo diceva anche nel titolo: Caulonia, l’allusione alle radici familiari e al tentativo di fare la rivoluzione in provincia; Limbo, il ballo originario di Trinidad, vera follia collettiva negli anni 50; “Ya Ya”, che unisce il riferimento a un vecchio successo di Lee Dorsey e allo slang che indica il vostro culetto che si muove nella danza. Se ci aggiungete il fatto che tutto il titolo parafrasa “Gris-Gris Gumbo Ya Ya” di Dr. John (il dio nascosto dietro questo album), avete la soluzione del rebus: questo disco è un caleidoscopio in cui tutte le influenze di Cavallaro & co. si compongono in un insieme sempre mutevole e inedito, che pare provenire da un qualche bar di New Orleans, malfamato e oscuro, situato in un film di David Lynch, un frullato delle proprie radici, ricercate perché siano ricomposte, anche istintivamente e quindi inconsciamente, in una specie di flusso di coscienza della scrittura musicale che azzera qualsiasi censura, fregandosene bellamente di mostrare in modo così evidente le proprie influenze, in un mosaico postmoderno in cui i riferimenti vengono continuamente stravolti. Risultato? Il più bel disco di Granturismo fino ad oggi. Ma se amate le certezze, non è roba per voi.
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