Undicesima fatica per Barbagallo, poliedrico musicista siciliano che, fra le tante esperienze, può vantare quella con Albanopower (e scusate se è poco), questo “Blue Records” trae il nome dallo studio di registrazione di Mondovì (Cuneo) in cui hanno preso corpo gli otto brani che lo compongono. A dispetto del nome, che evoca atmosfere jazzate, il clima del disco è profondamente psichedelico. A dir la verità, nell’opener “Soulself”, l’apertura rimanda direttamente proprio ad armonie jazz, tra il giro di accordi della chitarra e il lavoro del vibrafono: non si tratta solo di un ricordo di quello che è un mondo sonoro molto amato da Barbagallo, ma di una connessione profonda e sostanziante (nonché sostanziale) con la psichedelia, la quale nasce quando nel rock e nel folk vengono adottate i complessi accordi jazz, i tempi di batteria basati, diciamo così (e mi perdonino i musicisti, ma bisogna farsi capire anche da chi non suona), su un prevalente utilizzo dei piatti, e la massiccia tendenza all’improvvisazione basata sulle scale modali. Per lo meno, questo è quanto è avvenuto storicamente nella genesi della psichedelia della West Coast (due soli esempi bastano e avanzano: “Eight Miles High” dei Byrds e “Dèjà vu”, il brano, di CSNY, entrambi a firma David Crosby). In effetti, benché la conclusione di “Soulself” presenti sorprendentemente un riff da manuale del progressive nella sua versione più jazz-oriented, questa è la dimensione della psichedelia cui in “Blue Records” Barbagallo si accosta maggiormente: e la conferma arriva subito dopo, prima con l’interessante “Radion” e poi con la superba cover di “For the Turnstiles”, brano ingiustamente considerato minore di Neil Young solo perché relegato in chiusura della facciata A di quel capolavoro immenso che è “On the Beach” (1974). Barbagallo riesce nella colossale impresa di non far rimpiangere l’originale, perché, pur mantenendosi aderente allo spirito e al sound dell’originale (basato semplicemente su banjo e dobro), ne evidenzia i soprasensi, colorandolo di un torrido hammond che neanche Al Kooper, un sezione fiati tra il jazz e il soul, effetti elettronici che paiono uscire da un acid trip, cori che non si potrebbero collocare temporalmente e spazialmente altro che in un’afosa sessione al Broken Arrow Ranch nella prima metà dei Seventies). Il clima cambia con le successive “In My Better Cup”, dove trovo più forte l’influenza di Dr. John, e “Rats & Mosquitoes”, lungo e ipnotico strumentale in cui la tendenza di Barbagallo a utilizzare inserti di musica concreta, persistente in tutto il lavoro, si fa più forte, intersecandosi fecondamente con un ambiente sonoro fatto di arpeggi sospesi, batteria utilizzata coloristicamente, soprattutto sui piatti: il tutto, per certi versi, può ricordare alcune cose, tra le più dilatate, dei Jennifer Gentle. Se “Hiss of Hush” sposta la psichedelia di Barbagallo in territori più moderni e “Jewish” flirta addirittura con il manouche, il ca-po-la-vo-ro “Rainbow” ha qualcosa della pigra indolenza, che però qui si trasforma in rabbia, di “No Excuses” degli Alice in Chains.
Una caratteristica tra le più evidenti dell’intero lavoro è la ricerca di un suono materico: pare di sentire il contatto fisico con le corde delle chitarre, ad esempio. Barbagallo riesce a fondere i vari strumenti, pur così presenti, in un tutt’uno perfettamente coerente, in cui ognuno si distingue nitidamente pur concorrendo a creare un’atmosfera complessiva totalmente armonica. Anche per questo "Blue records" si differenzia positivamente dal suono standard che caratterizza, purtroppo, troppi lavori odierni. In definitiva un ottimo disco, che merita tutta l’attenzione possibile.
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