Una giovane reggae band con tutti i crismi e dei pezzi sorprendenti: la notizia è tutta qui
Dalle righe della loro bio i Pellicans proclamano il loro no ai riddim, al reggae contemporaneo, che ormai è sempre meno reggae e sempre più hip hop (o altro ancora, ma non indaghiamo). Già per questo mi stanno simpatici. Ancor di più perchè la loro personale risposta non è l'ormai affollato roots, ma un richiamo a quella scuola inglese che ha naturalmente negli UB40 il proprio capofila. E che viene sempre guardata con sospetto, forse perchè troppo pop, forse perchè troppo "bianca". Chissà.
Ad ogni modo, i Pellicans questa roba la sanno fare. E bene, davvero bene. Hanno davvero tutto quello che serve: una voce originale e presente, mai artefatta o stucchevole, l'attitudine al ritornello catchy ("A word up there", "Move on", "It's raining"), i riff che si infilano sottopelle ("A last gaze of mind"), le percussioni che suonano solo quando servono e nel resto del tempo stanno al loro posto (annoso problema, soprattutto live, dei gruppi reggae e ska nostrani), l'indulgere nel dub con cautela e ponderazione ("Short dub").
Insomma, in parole semplici: i Pellicans hanno gusto, e talento. Non esagero se dico che questo è uno dei più bei dischi di reggae fatto da italiani (e non di reggae all'italiana, c'è una sottile differenza) che mi sia capitato di sentire, almeno da una band uscita negli ultimi cinque. Così, scorrendo ancora le note di copertina alla ricerca di altre informazioni, scopro che i nostri vengono da Pinerolo, cittadina piemontese che dà i natali ai mostri sacri del genere in Italia, gli Africa Unite, e che uno di loro (il chitarrista Ru Catania) siede dietro la consolle nella produzione di questo disco. Se non è una benedizione questa...
Poi, purtroppo, in tempi di ultracomunicazione come i nostri se non ti inventi una definizione di genere tua e non dichiari di contaminare mille stili sembra che nessuno ti dia ascolto (ma potrebbe essere una fissa delle band): nel caso dei Pellicans, il loro sembra che sia queer reggae, dalla forte componente gay-bisex, e che inserisca elementi di post-punk, dance e blues (vedi qui). Per quanto riguarda questi ultimi, devo confessare che non ce li ho minimamente sentiti, e non è che "Dancing boy" abbia perso valore per questo.
Poi, che si prenda posizione in un genere con grandi problemi di omofobia come quello della musica jamaicana di un certo tipo, lo trovo anche ammirevole: ma non sono sicuro che definire la propria proposta "queer reggae" sia la scelta giusta. Intendo: mi sembra spostare troppo l'attenzione dalla musica vera e propria. Capisco che possa non fare notizia allo stesso modo, il fatto semplicemente che ci sia un giovane gruppo reggae italiano con tutti i crismi e con delle canzoni sorprendenti. Ma è anche il solo motivo per cui mi sono innamorato dei Pellicans, e mi sento di consigliarli a chi ama, anche solo un pochino, tutto ciò che è in levare.
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La recensione DANCING BOY di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2013-05-29 00:00:00
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