Il sospetto era forte, il diretto interessato aveva già fatto intravedere qualcosa di molto buono con il pezzo “Molliche” uscito nella compilation “Apocalypse Wow” (diNotte records- Vulcanophono, dicembre 2012). Il sospetto adesso si è trasformato in certezza: il disco d'esordio di Setti è un lavoro di classe, fatto di aggraziate ballate in bilico tra leggerezza e lieve inquietudine, vivacità di pensiero e intima introspezione, immaginazione e realtà. Setti non ci vuole sconvolgere e non ci vuole mostrare possibili rivoluzioni, vuole semplicemente presentarci il piccolo spazio che si è ritagliato per sé, un piccolo cosmo tutto suo, all'interno del quale sceglie le storie da raccontarci. Un ottimo menestrello armato di chitarra, che all'occorrenza sfodera le storie più affascinanti: uomini persi nel deserto con davanti il nulla (“Deserto”), gabbiani molestatori (“Seppia”), persone che vorrebbero essere amiche ma non ci riescono, ci sono troppi silenzi, silenzi ingombranti (“George”), coppie che per quanto fuggano in altri paesi, alla fine si ritrovano sempre a pensare ai baci non dati (“Kentucky”).
C'è una bellissima immaginazione narrativa che avvolge, eccome, un'immaginazione che alla fine si riflette nella realtà universale di tutti noi. “Ahilui” nell'insieme, ricorda un po' quell'ironia sghemba di un Bugo giovane, accompagnata da un'ingenua semplicità. Ma non solo, c'è anche dell'altro. L'empatia scatta anche grazie alle piccole incursioni della chitarra elettrica riverberata di Luca Mazzieri (Wolther Goes Stranger), dalle drum-machine di Massimo Colucci e dai cori di Linda Brusiani che rendono il tutto più fresco, dinamico quando serve, mostrandoci delle piacevolissime e leggere sfumature pop surf. Sonorità, quindi, meno ancorate ai suoni più tradizionali per il genere in questione.
In definitiva, le liriche si amalgamano perfettamente con la sostanza melodica. Un bel centro pieno, merito anche dei compagni che ha scelto per questo percorso, e Jonathan Clancy (A Classic Education, His Clancyness) che si è occupato della masterizzazione, donando l'impeccabile veste lo-fi all'intera economia del disco. Questa volta non ci sono vie di mezzo: bisogna amare “Ahilui”. Perché è un piccolo diario di viaggio esistenziale suggestivo, a volte surreale a volte fin troppo reale, ma sempre sincero chiaro e nitido. Aria fresca.
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