Ci sono dischi che, per quanto possano non piacere, hanno un potere magnetico. E per non piacere, il demo degli Abachi da nylon di carte da giocare ne ha molte. Niente bluff, buttiamo tutto sul tavolo: un immaginario per molti versi fermo all’Italia degli anni novanta, una forte discontinuità di genere in soli sei brani passando dal funk in acustico (a me in realtà sembran continue variazioni sul giro di "Cambio" dei Negrita) al cantautorato di un paio di decenni fa, arrangiamenti spesso improbabili, un tono di lamentela continua. Mettiamoci anche un flow, arrancante, nei pezzi rap-oriented che ricorda il primo Will Smith (quello della sigla de “Il principe di Bel-Air”, per intenderci) totalmente fuori dal tempo ed una scelta delle parole quantomeno grossolana.
Forse sono la freschezza e l’ingenuità a salvare dal massacro questa prima prova del combo piemontese. Quel sapore di banco di scuola e di conversazioni veloci e dirette da intervallo, tra una merendina e le prime sigarette fumate tossicchiando e di nascosto dai professori, per sentirsi un po’ più grandi. Con questa chiave di lettura fan quasi tenerezza le dichiarazioni d’amore di “Sembra quasi” e di “Chi ti chiama”, l’irrisolta tensione tra odi et amo per la provincia ("Vivo la provincia”) e si riesce quasi a soprassedere su versi altamente improbabili ("un albergo ad ore ho perso le chiavi ci vorrebbe un pass-partout/son passato dal portiere che mi ha chiesto il documento la copia non la fa, non è la samsung"), accettandoli abbozzando un sorriso. Son curioso di cosa potranno propormi in futuro.
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