Primo album per Wolther Goes Stranger che da progetto solista diventa trio: elettronica che naviga tra gran gusto e importanti collaborazioni.
E mi ritrovo da sola, a guardare uno schermo immobile senza pensare a niente, come le domeniche mattina d’inverno, come quando sei andato via e io, contro ogni verosimile previsione, mi sono sentita invincibile e pronta a ricominciare. Sono sola e questo mi piace, mi è sempre piaciuto perché non amo parlare, piuttosto ascolto, per ore, esprimendomi col capo e con lo sguardo: perché non hai mai scritto una canzone per me? Magari come “Darling” che trasforma l’elettronica in dieci grammi di cielo, con le giuste nuvole e un piano che ti coccola nell’azzurro, e il sassofono a spezzare l’etereo per spingerti oltre.
Non mi aspetto che il tempo passi velocemente, mi godo l’attesa, il pomeriggio quieto, e trasformo un disco in compagnia assoluta: “Your Name” è già più dura, tanti spigoli che scivolano dall’inglese all’italiano in panorami dance che non perdono mai eleganza, e si riflette nello schermo immobile la mia testa incappucciata che segue il ritmo, e continua a seguirlo con “I’m Sorry”, sulle parole scritte da Alessandro Raina, e si gioca ancora tra lingue diverse e si balla ancora, e si chiede scusa, ed è come notti electropop, come hit estive che non rendono allegri. “Idol” è tirata, è secca, è drum machine, tanto eighties nella sezione ritmica ed evoca immagini che s’adattano bene al bianco e nero come a tinte shocking, e sarò folle ma intravedo scenari kraut sposati all’italo disco in “Jesus”, ma non sono folle, sono soltanto sola, e per ora è un bene. Fin qui, tutto bene. Fin qui, perché quando leggo Federico Fiumani tiro su il sopracciglio, sento brividi sulle braccia che scendono ai lati della pancia, e non ci posso fare proprio niente e anche se ho 36 anni è come fosse adolescenza in quei momenti lì, e “Sometimes” mi scuote, mi fa mordicchiare le dita e so che non si dovrebbe fare; e poi “Sixteen” che si scioglie in un tramonto affogato da istantanei ricordi, così profondo tra le trame sintetiche e il featuring di Jonathan Clancy, tra il sound pieno e splendido e il buio che inizia a sorprenderti, il mio brano preferito.
Luca Mazzieri (già A Classic Education) s’inventa il suo progetto, parte come solista e poi incontra Massimo Colucci e Linda Brusiani, e arriva il primo album, questo: ricco, corposo, bellissimo, i suoni curati come amo e una raffinata visione dell’elettronica che le toglie superflue ridondanze per lasciarla così com’è, ballabile e al tempo stesso adorabile nel suo abbracciarci anche quando siamo fermi.
Ho la testa inclinata, la luce evapora quasi avesse un peso, ma c’è ancora, ci sono ancora ombre leggerissime sui muri, e nei loop al contrario di “Julesdormeinberlin” so che il giorno sta finendo, sento il mio respiro sottile, le ciglia che battono lente, la saliva che mi scende in gola a tratti, e su tutto il cuore. E di nuovo sola, forse a lungo, non so, a fissare l’ambiente, a sognare l’amore, a pensarti vicino, e contare i minuti, le idee, e i battiti.
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La recensione Love Can't Talk di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2013-06-03 00:00:00
COMMENTI (2)
Gran bell'album!!! 12 euri spesi molto bene. Lo consiglio a tutti i "sognatori" deviati...
anche questo disco ,come quello di Setti ,e' prodotto da noi della Barberia
e si trova qui
labarberiarecords.blogspot.it/
barberia.wordpress.com/