Elogio alla lentezza degli sguardi, dei pensieri e dell'elettroacustica
Ti ricordi? C’è stato quell’anno terribile, il primo magari di tanti a seguire, in cui aprivano finestre di comunicazione dai rispettivi uffici, strappando secondi di lavoro per invettive, bestemmie, sfoghi estemporanei ed asincroni, per portarci via da tutto quello che non ci piaceva (più). Ti ricordi il nostro sogno, il nostro desiderio di mollare tutto, almeno per un giorno, e scendere al bar davanti all’ufficio, prenderci un tavolino con una birra davanti e guardar gli altri passare, affannarsi, fare, per un giorno intero, come guardare una lunghissima sequenza con una sola inquadratura, come in Satantango, senza fare altro. Come anziani dietro una finestra, a guardar la vita di fuori attraverso un vetro che li separa e permette al contempo di rifletter la loro, di storia. Alla fine non l’abbiamo mai fatto, ma stanotte ci pensavo, ci ho trovati ascoltando questo disco nuovo.
Un disco che prende tempo, lo esige, in cui non c’è nulla che “deve” succedere ma in cui le storie, le persone, i suoni, passano e raccontano. Raccontano di una generazione, la nostra, con i suoi ossi di seppia e le sue sconfitte. Un disco che è rimasto come una pellicola esposta a lungo alla luce delle notti insonni, cercando di catturare i bagliori un’alba che tardava a venire, immersa nei pensieri e nei delay. Un po’ come nei Daughter, ora che ti sei dato alla musica “nuova”, ma non aprendo squarci, ma anzi lasciando colare le immagini sul piano sonoro e temporale. Un po’ come degli Slint frullati nell’esperienza shoegaze con in mano la strumentazione dei The XX, se mi reggi il paragone. Un po’ come noi, sfiniti, quando ci sedevamo a terra lasciando la gente passare, aspettando l’inizio che sarebbe stata la fine, in quell’ultima giornata di festival. Un po’ come noi, ma anche oltre. Forse con più tempo a disposizione o con un orizzonte più ampio del proprio personale disagio, questo gruppo ha aperto molto di più l’orizzonte delle proprie riflessioni, estendendolo non solo ai rapporti di coppia o alla sfera personale, ma alla famiglia (“Bad poetry”), alle guerre di quando anche noi eravamo giovani (“94”) e a futuribili terze guerre mondiali (“William III”). Un intero frammento di un mondo visto da un punto fisso, un po’ come noi, chiusi nei nostri dialoghi, o monologhi a due.
Ti ricordi il sogno di cui ti parlavo? Alla fine non l’abbiamo mai fatto, ed ora i nostri sproloqui sono sempre più radi, come gettati nella notte, ognuno preso con le proprie vite. Io domani vado in vacanza, magari lunedì mi trovi al bar. Notte.
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La recensione PROPAGANDA di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2013-10-02 00:00:00
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