Nuova formazione, noise e kraut rock d'autore senza velleità commerciali. Un oscuro capolavoro.
Immaginiamo una zanzara. Non è difficile, vista la calura soffocante che stiamo sopportando. Immaginiamo che il fastidioso insetto ronzi vicino all'orecchio proprio nel momento nel quale, stremati, tentiamo di prendere sonno. Ora, invece di alzarsi e sparare ciabatte alla cieca, supponiamo che l'insetto entri dall'orecchio direttamente nel nostro cervello e continui a ronzare costantemente. Non è una bella immagine, somiglia all'incipit di un film firmato Cronenberg, eppure la sensazione ha il suo fascino deviato. Mi perdoneranno gli Ulan Bator, ma il primo pezzo del loro nuovo album evoca in me queste visioni. Un brusio noise sempre più consistente, per un crescendo che mi manda fuori di testa. Capiamoci, sono tutti complimenti. Il ritorno della band francese, ormai italiana d'adozione, coincide con il ventennale di carriera. Avant rock, noise, psichedelia oscura, kraut come se piovesse. Amaury Cambuzat, da sempre leader, stavolta s'accompagna con Natalie Forget (già nei Faust) alla voce e all' Ondes Martentot, un organo strano, progenitore del synth. La sezione ritmica è invece di casa nostra: Diego Vinciarelli e Luca Andriola. Con questa formazione gli Ulan Bator danno alla luce uno dei migliori album della loro storia. Spogliati delle velleità commerciali, possono focalizzare la passione sulla composizione e sull'improvvisazione, senza barriere.
Viene fuori un disco strisciante, che si insinua sottopelle con le sue dissonanze ed i suoi ritmi mantrici. "We R You" corrompe con la sua ciclicità, fino a rompere la quadratura, "Ah Ham" porta alla mente il Nick Cave di "Tupelo", corale e sghembo, "Colère" invece potrebbe essere un pezzo degli Einstuerzende Neubauten di "Tabula Rasa": un tappeto di ambient industriale accompagna la voce intensa e recitativa di Amaury. "Bugarach" è psicotropa e plumbea come un trip finito male, mentre "Song for the Deaf" è figlia dei Velvet Underground del secondo album, quello registrato coi volumi sballati, live in studio, che contiene "Sister Ray" e che cambia la musica per sempre. "Fakir" è più sonica, ma mai americana. Potrebbe essere la colonna sonora del traffico nelle tangenziali. Qui le voci di Amaury e Natalie si mischiano, un effetto sorpresa niente male. Il pezzo no wave 2013 se lo aggiudica "Jesus BBQ", è anche la canzone nella quale, seguendo la fantasia iniziale, la suddetta zanzara depone le uova nella mia testa. Unica concessione alla melodia nella title track conclusiva. Unica concessione alla Francia, melodicamente parlando. La Forget interpreta perfettamente questo pezzo che nasce dalle macerie e dalla distruzione. "En France / En Transe", il titolo spiega più di ogni parola che mi possa venire in mente.
Grazie alla formazione per metà italiana, questo disco entrerà di diritto nella mia classifica di fine anno. Un album così difficile, suonato così semplicemente, mi fa suggerire ad Amaury di non intraprendere altri percorsi, questo è il terreno sul quale gli Ulan Bator hanno sempre sbarellato la (poca) concorrenza, questo è il percorso che fa emozionare visceralmente, dai tempi di "Polaire" e "Lumière blanche", dalla prima volta che li vidi dal vivo negli anni 90 fino ad ora, in splendida forma, trattando la musica come arte e non come gadget commerciabile. Io sentitamente ringrazio e ce ne sono tanti là fuori che fanno lo stesso.
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La recensione Enfrance entrance di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2013-08-20 00:00:00
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