Passano gli anni, i capelli cadono o diventano bianchi, i cd masterizzati iniziano a saltare e poi non vanno più, i semafori spariscono e al loro posto rotonde su rotonde. Poche cose sopravvivono all'incessante scorrere del tempo: una di queste, per dare un taglio alle fregnacce, è il suono aperto delle Rickenbacker, che dalle stagioni che girano girano girano di David Crosby e compagni ai mormorii degli R.E.M., alle cavalcate rosse e verdi del Paisley Underground, è sempre stato una piccola stella polare nell'universo della psichedelia americana ma non solo.
Seguendola, i nostrani Temponauts, da Piacenza, danno finalmente alle stampe il loro secondo disco, "The Canticle of Temponauts": senza giri di parole, un gioiellino del genere. Dalle prime battute di "Elsewhere", che più byrdsiana non si poteva, alla reinterpretazione di un brano minore dei Beach Boys come "Disney Girls (1957)", la direzione è inequivocabile, con un'attitudine melodica più unica che rara, confermata da "I was born on Monday", un singolo che metà delle band - anche internazionali - che viaggiano su strade parallele a quella dei Temponauts darebbero un dito per scrivere.
Basterebbe questo: ma c'è di più. Perché la malinconia, quello spleen gentile, timido, che tradiscono alcuni dei brani di "The Canticle" non è un elemento che si può ignorare o derubricare facilmente, ed è probabilmente ciò che rende il disco così sfizioso: "Gone too far", ad esempio, o "Capitulation day", ricordano talmente tanto le atmosfere dei Go-Betweens da costringere (piacevolmente) l'ascoltatore ad allargare i propri orizzonti, a regolare diversamente le lenti del proprio telescopio. Perché, se è sempre il sound Rickenbacker a dettare le coordinate, il cielo lì attorno è molto più vasto di quello che sembra. E i Temponauts l'hanno capito alla perfezione.
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