Il mare? Paragoniamolo a un incrocio: di sfide, leggende, fatiche, scoperte, uomini e donne. Raccontarlo è una conseguenza logica, per chi lo vive e per chi ha deciso di inserirlo al centro della propria cifra stilistica.
“Kuntarimari” si traduce con “racconti di mare”, e gli Agricantus ricorrono alla loro lingua, il siciliano, per tornare sulle scene dopo sei anni di assenza e tirare fuori un album su sfide, leggende, fatiche, scoperte, uomini e donne. Storie tenute insieme dall’acqua salata, dalle onde, bagnate da tradizione e modernità e da una babele di idiomi (no, l’italiano non c’è).
Flauti nepalesi e boliviani, il ragamuffin di Jaka, cantautori di ispirazione sufi, musicisti e haka neozelandesi, computer e iniezioni ambient convivono nel mezzo di dieci canzoni influenzate da retaggi cantautorali, cuciti da arrangiamenti raffinati e tendenze orientaleggianti, giochi di voci e di cori, trame intriganti (la chitarrina di Sema Simdi ricorda tanto i Beach House, e che non sembri una bestemmia).
In fondo, gli obiettivi di Tonj Acquaviva e Rosie Wiederkeher, ovvero l’anima degli Agricantus, sono i medesimi da almeno due decenni: avvicinare le culture, inserirle in qual calderone che un tempo andava tanto di moda definire melting pot. Costruire ponti e renderli accessibili è la specialità della casa, “Kuntarimari” la conferma della straordinaria apertura mentale della band siciliana, della sua capacità di assimilare e mettersi al servizio del sud del mondo. E per dirla tutta – se ancora non si era capito – abbiamo a che fare con un disco bellissimo. Difetti? Gli eccessi new age che si respirano qua e là, e forse a qualcuno non andranno giù. Ma questi sono gli Agricantus, resta solo da decidere se prendere o lasciare. Un consiglio? Prendere.
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