Ogni tanto capita che un disco come questo spunti di soppiatto dai sotterranei, inaspettato come la visita di un vecchio amico che non vedevi da tempo. E' vero che i Pecksniff sono in giro da un bel po’ di anni, ma ultimamente hanno deviato il loro percorso in modo così netto da far pensare quasi alla nascita di una nuova entità. Con la dipartita del batterista Filippo Poletti, infatti, il gruppo ha abbandonato la fisionomia del trio in favore di una più articolata orchestrina nella quale hanno trovato posto, oltre ad un nuovo batterista, una cantante e due oscuri individui dediti alla manipolazione di giocattoli vari. La musica non poteva che cambiare direzione, passando dall’hardcore surreale degli esordi a un immaginario più leggero, venato di tenere melodie. Ma al contrario dei tanti gruppi che si sono fatti un nome per la propria aggressività e sono scaduti nel ridicolo quando hanno tentato un approccio orecchiabile, i Pecksniff sorprendono per essere riusciti a evolversi esclusivamente in ambito creativo, senza perdere un briciolo della propria credibilità.
Nonostante lo stile non sia di per sé originale, questo gruppo parmense si eleva dalla massa grazie ad una spiccata personalità. Le loro fonti sono palesi - le linee melodiche dei Belle & Sebastian, lo spleen dei Pavement, lo spirito bandistico di Frank Zappa - ma questi referenti perdono ogni valore nostalgico quando, sovrapposti l'uno all'altro, convergono in una musica che trova nella spontaneità il suo valore più alto, lontana mille miglia da qualsiasi impulso derivativo. Sono in molti a farsi belli con frasi di circostanza quali “Io suono la musica che più mi piace”; oppure “Attraverso la musica io rappresento me stesso”, ma quando questo accade te ne accorgi dall’ascolto e se non te ne accorgi le buone intenzioni te le puoi fumare nella pipa.
E’ proprio in ossequio alla loro coerenza che i Pecksniff si permettono di ‘rovinare’ potenziali hit che, ricondotti ad una più consona alternanza di strofe e ritornelli, nonché arrangiati in modo più ortodosso, potrebbero fare la loro fortuna sulle radio nazionali. Appartengono a questa categoria “Drawing the sky”, “The snow on your head” e “My heart was broken again”, degna se non superiore ai milionari Strokes. A questi potenziali best-sellers si affiancano episodi di folk quasi pastorale quali “The bees attack” o “Susy dj”, danze ubriache per piazze medievali come “Troubles and clouds” e “A book into your eyes” e le frizzanti melodie infantili di “Sea of grass” e “The song of Stephanie and Stephen”. Sono tutti episodi brevi che condensano nei pochi minuti di questo disco (quasi un ep) una molteplicità di idee che una volta espresse vengono subito abbandonate in favore di altre per impedire ogni possibile sbadiglio. A chiudere il cerchio si aggiungono elementi più stonati (in tutti i sensi) quali ad esempio le continue stecche vocali, le svisate ironiche, i trucchi psichedelici che, sparsi qua e là in modo tutt’altro che gratuito o volgare, regalano un ulteriore valore aggiunto a un disco che si merita tutta l’attenzione del panorama musicale italiano e non.
Ora che Bugo ha saltato il fosso del mainstream, l’underground potrebbe aver trovato i suoi eredi.
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