Un disco non da un ascolto e via quello dei Mooth, ma che si apprezza dopo ripetuti ascolti. Al primo si degusta la potenza dei timbri, anche se piuttosto monocorde, mutuati ora dal metal, ora dallo stoner. Al secondo ascolto si configura l'attenzione per un sistema ritmico non banale, seppure ogni tanto portato all'esasperazione, come in “Red carpet on the hill side”, che racchiude in soli tre minuti continui cambi di ritmo, dalla prima parte più labirintica, à la A Perfect Circle, alla seconda parte ostinatamente hardcore.
Tutti i brani sono dei massi giganteschi che rotolano giù dalla montagna, a partire dal primo grosso scossone “Debra de Santo was a heartbreaker”, fino a “Viscera”, che prima si arrotola su se stessa, poi rompe gli schemi circolari in favore di un'arrampicata nu-metal, poi si frammenta ancora diventando una vera e propria suite prog; si deve molto alla scuola Tool, da cui nasce questo atteggiamento math-rock coniugato in chiave cross-over (“Black host”).
Nel complesso “Slow sun” è un'ottima prova, ma il rischio dietro l'angolo è che questi arrangiamenti così complessi e questa saturazione continua dei suoni producano un effetto troppo monolitico, ai limiti dell'indistricabile. Pulire un po', giocare a togliere, alleggerire, le parole d'ordine per il prossimo passo.
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