Un disco che si immerge nel blues inaspettatamente affascinante e ricco di pathos
Avevo dato un ascolto fugace, il classico assaggio per farmi un'idea di cosa potesse riservarmi questa manciata di canzoni. Un po' come fai con la quarta di copertina di un libro che ti hanno appena regalato, quando ti riprometti di riprenderlo solo perché si tratta di un regalo, mica per altro. Poi lo ripeschi davvero quel libro, tutto intenzionato ad arrivare fino in fondo, e solo allora ti accorgi di essere stato un coglione siccome quel libro meritava di essere letto subito.
La dinamica, identica, è successa con "La mattanza dei diavoli", disco intestato a Salvo Ladduca, musicista siciliano con un curriculum notevolissimo nelle vesti di collaboratore, fra gli altri, di Hugo Race, Cesare Basile, Mick Harvey, Marta Collica, Boxeur The Coeur e Songs for Ulan.
Nazarin segue l'esperienza dei Marlowe, e di quella band si porta dietro un notevole bagaglio di esperienza. Ovvero che per scrivere e arrangiare certe canzoni non devi avere solo del buon gusto ma anche aver macinato chilometri e passato ore a suonare per la semplice voglia di farlo. Perché queste 11 tracce trasmettono questa sensazione prima di tutto; poi c'è anche il blues, tantissimo blues (in "Radice mangia radice", nella traccia che dà il titolo all'album), declinato secondo quel mood tipico di Cesare Basile ormai divenuto cifra stilistica per tantissime band ed artisti della (pen)isola. E questa declinazione è anche il frutto di quelle collaborazioni a cui sopra accennavamo, soprattutto quella con Hugo Race (che spunta in brani come "Partinico", pezzo completamente strumentale, le cui atmosfere richiamano sonorità vicine ai Calexico).
Parallelamente a questo lavoro di ricerca musicale, dentro "La mattanza dei diavoli" ci sono storie piene di significati; Salvo Ladduca mette in fila le parole come un poeta, senza però andare mai alla ricerca di facili rime o di versi costruiti ad arte. E non é semplice evitare la retorica quando, come nel suo caso, la narrazione é incentrata su un immaginario che incrocia schegge impazzite del vissuto personale ("Ho creduto agli occhi di mio padre / alle valigie e alle stazioni dell’addio / alle cicatrici di una donna disarmata / al freddo di un viaggio accecato / delle famiglie fatte a pezzi ai dadi che complicano i giorni / perchè siamo vino e carte da gioco") con richiami alla terra natale, quella Sicilia che da sempre convive con le sue da profonde contraddizioni.
Ma la mia è un'interpretazione davvero soggettiva, ché le liriche degli 11 brani si prestano a infinite (ri)letture, dove nessuna di queste potrà mai considerarsi definitiva. Rimane - anche per questo motivo - un disco inaspettatamente affascinante e ricco di pathos, che mi auguro vi coinvolga allo stesso modo in cui è successo al sottoscritto.
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La recensione La Mattanza dei Diavoli di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2014-03-15 00:00:00
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