Cimentarsi con la musica di Charles Aznavour. Un’impresa non facile, ma il quartetto di Paolo Bernardi ne è uscito bene
Crescere nella prima metà degli anni ’70. Con l’aiuto fondamentale dello show del sabato sera, in una televisione non ancora intossicata da robot d’acciaio e da quattro sbarbatelli benpensanti residenti a Milwaukee. Andare giù di testa per gli sketch dei comici, attendere con impazienza l’irrompere in scena dell’ospite d’onore, godersi lo sfarzo delle scenografie e i loro colori (due: il bianco e il nero). Sopportare il dimenarsi di ballerine mezze nude non ancora dispensatrici di bollori di derivazione ormonale e la prevedibilità dei cantanti, il più delle volte bolsi, se non del tutto bolliti: Claudio Villa non si reggeva proprio, al limite ci si poteva risollevare con qualche hippy fuori tempo massimo, che almeno un po’ di simpatia poteva suscitarla. E in quei lontani fine settimana era facile imbattersi in un tipo all’apparenza algido, dall’aria elegante e dalla voce particolare: indovinato, Charles Aznavour. Uno bravo, sensazione che si avvertiva al primo impatto, già un’istituzione all’epoca, anche se poi la nostra adolescenza sarebbe stata terra di conquista di rockettari impenitenti o cantautori tristi.
Per fortuna la maturità ci avrebbe lasciato il tempo di scoprire che gente come Bob Dylan ed Elvis Costello (già, due dei nostri) adoravano, e adorano tutt’ora, il suo stile canoro e le sue canzoni. Ne ha scritte più di mille il francese di origini armene e persino qualche musicista di casa nostra, per lo più pellegrini di passaggio, ha provato a cimentarsi con la sua opera. Ma forse nessuno si è mai spinto in là quanto Paolo Bernardi, ovvero un pianista di ispirazione jazz, uno in equilibrio tra Keith Jarrett e swing, bop e aperture soul. Undici i brani firmati Aznavour (la dodicesima, “Mon ami”, è uscita dalle mani del Bernardi stesso) reinterpretati dall’artista romano, mai o quasi mai stravolti se non nello stile e nella mancanza della parte vocale. Le grandi orchestre sono sostituite dal jazz di una band ispirata, trascinata da un pianoforte che la fa spesso da padrone, impreziosita da un contrabbasso pastoso, dal calore dei fiati e da una batteria che tiene insieme il tutto.
Un disco che si lascia amare per le sue improvvisazioni non improvvisate, per il suono maestoso e aperto a più di una contaminazione: il sax di sapore pop che esce fuori da “L’amour c’est comme un jour” o l’estrema orecchiabilità di “Les plaisirs démodes” son lì a dimostrare che “Paolo Bernardi Quartet… plays Aznavour” può colpire al cuore anche chi non ha mai avuto eccessiva dimestichezza con il jazz. E se anche il grande vecchio ha apprezzato queste versioni dei suoi brani, una ragione ci sarà.
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La recensione ...Plays Aznavour di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2014-02-10 00:00:00
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