“Ora accendiamo un fuoco e restiamo un poco seduti qua”.
“Sestri Levante” è l’ultima canzone del disco. È una canzone da spiaggia, nel senso che racconta di un falò in riva al mare dopo un concerto: i tre Zen Circus e il loro pubblico a bere e fumare. Una canzone lenta, rilassata, un pezzo che vuole farti finire il disco con tranquillità, forse la stessa tranquilità che ha portato gli Zen a scrivere e registrare “Canzoni contro la natura”.
L’album arriva dopo un 2013 di pausa assoluta per la band. Meglio: di pausa assoluta per il marchio “Zen Circus”, ma di attività intensa per i tre componenti. Appino ha registrato il suo album solista “Il testamento” e ha girato in lungo e in largo per mesi, Karim ha creato il suo progetto La notte dei lunghi coltelli, Ufo si è inventato dj, con valigetta stracarica di vinili al seguito. Ognuno ha potuto sfogare le proprie voglie prima di tornare a registrare in trio. La conseguenza di tutto questo è semplice: un ritorno alla base, a quello che sanno fare meglio.
“Nati per subire” era il tentativo di aprire nuove strade, dilatando le canzoni con inserti strumentali e lavorando per aggiunta, ma l’ascolto di quell’album finiva per lasciare addosso solo un senso di incompiuto, dovuto a una grossa mancanza di compattezza. “Canzoni contro la natura” va esattamente nella direzione opposta: punta tutto sulla sottrazione, elimina il superfluo e torna alle radici.
“Canzoni contro la natura” è un disco in cui si sentono gli Zen Circus dal primo all’ultimo secondo: dagli slogan con tutto e il contrario di tutto urlati in “Viva” alla storia dell’anarchico “Dalì”, passando per il momento De André de “L’anarchico e il generale”, senza dimenticare due pezzi chiave come “Canzone contro la natura” e “Albero di tiglio”, racconto in prima persona di un dio rassegnato e moribondo.
Il disco si chiude nella rilassatezza di “Sestri Levante”, ma non preoccupatevi: il cinismo e la disillusione degli Zen ovviamente ci sono. Non si tratta però del gioco al massacro di “Nati per subire”, in cui nulla veniva risparmiato. “Canzoni contro la natura” è una raccolta di brani in cui non si concede nessuna attenuante all’essere umano, ma senza infierire, come se la band fosse arrivata alla conclusione che con debolezze, mancanze e sogni infranti tocchi ormai convivere. E se così deve essere, tanto vale cercare di farlo nel migliore dei modi.
Il circo urbano di “Postumia” è l’esempio più evidente. Il pezzo è uno dei più belli e rappresentativi della storia degli Zen, un brano che ne fa capire in pochi minuti la storia e lo stile. “Postumia” racconta figure e personaggi cui non si riesce a invidiare nulla, ma non c’è un giudizio. La forza degli Zen sta proprio qui: nel rifiutare con forza il ruolo del modello, dell’esempio, dell’educatore. No, loro cantano di gente che se ne frega di tutto e punta giusto a riuscire a scopare dopo una notte passata davanti o dietro a un bancone, ma lo fanno senza mai alzare il ditino accusatorio. In più di un’occasione parlano di come la generazione dei nostri nonni resterebbe delusa (se non schifata) di fronte a quello che è diventato il paese. Sarebbe facile riversare la colpa sui nipoti, su chi è giovane oggi, così mettersi a dare giudizi e condanne. Sarebbe facile, ma non sarebbero gli Zen Circus.
Per dirla in due parole, “Canzoni contro la natura” è il miglior disco degli Zen dal passaggio all’italiano, capace di unire la ruvidezza musicale dei primi album e la voglia di raccontare emersa negli ultimi anni. Un signor disco, che lascia intravedere live importanti. E sappiamo tutti quanto ci siano mancati gli Zen dal vivo nell’ultimo anno.
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