Tastiere dreamy, batterie elettroniche impalpabili e voci strascicate. Un altro tipo di post rock
I ritmi spezzati e il battimani dell'iniziale “Morning” pongono i Maybe Happy su un piano diverso rispetto alla media dei gruppi post rock. Qualcosa che avvicina molto il terzetto ai Giardini Di Mirò dell’epoca indietronica, quelli inclusi tra l’album “Punk… Not Diet!” e l’ep “North Atlantic Treaty Of Love”. Le chitarre ovviamente non mancano. Ma “Beat Even” batte spesso il chiodo dalle parti delle tastiere dreamy, delle batterie elettroniche impalpabili e delle voci perennemente strascicate alla Alessandro Raina.
Quando trattengono troppo il fiato rischiano di rimanere impalpabili e asfissiati: la vocalità di “Walk And Come And Go” scorre senza un sussulto, dritta e delicata, come se si limitasse a seguire le indicazioni - a loro volta non formidabili - degli strumenti anziché dettare la via e tirare fuori l’anima. Ma si tratta dell’eccezione non convincente di un disco che, invece, nella totalità convince. “Difference” alza i toni e desta attenzione, in un punk improprio alla maniera dei Notwist - poche parole e molte emozioni. “So Far So Wrong” è una ballata dark e dimessa di piccoli dettagli e grande visionarietà. E poi c’è la bella chiusura di “Slow”, scandita da riverberi avvolgenti e abbondante lentezza.
“Beat Even” è un buon cd e nei suoi momenti migliori riesce a seguire bene gli umori di chi, nella musica, cerca un conforto che sia nemico dei giorni neri.
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La recensione BEAT EVEN di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2013-11-25 00:00:00
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