“Il nostro è rock, ma per carità non rock italiano”: questo mi scriveva in una lontana mail il chitarrista dei Margine, Giugi, un’esplicita (quanto implicitamente ambigua) presa di distanza dal genere che, da bandiera esposta/opposta allo strapotere del rock anglofono, si è traformato in stanco (e in alcuni casi squallido) clichè da molti fuggito come ‘provinciale’ - o nel migliore dei casi ‘obsoleto’.
Il fatto è che quello dei Margine è rock, ma anche, nella fattispecie italiano” concepito e cantato nella terra e nella lingua di Dante (o se preferite ‘de noantri’!); e allora dove sta la differenza tra questa musica e “quell’altra” (i vari Litfiba, Negrita, Timoria, Vasco e via dicendo)? La differenza sta nella genuinità e nell’onestà di una proposta che, consapevole di non apportare novità alcuna, gioca le sue carte affidandosi ciecamente ai colori decisi e forti delle sue figure ormai convenzionali, ma sempre affascinanti e inguaribilmente romantiche.
Se già il precedente “Frankino’s dead” aveva ben impressionato per la cura del suono e della grafica, nonché, appunto, per questo manifestato radicalismo, “Sequenze” riesce addirittura a sorprendere, consegnandoci, rivestita di un artwork talmente bello da far impallidire molti lavori professionistici, una band sempre più consapevole delle proprie potenzialità, indubbiamente maturata e rinnovata al punto da rendersi a tratti irriconoscibile. Buono l’innesto del nuovo cantante Fabrizio, la cui voce (in combutta con un’asprezza di fondo), sposta le coordinate dei pezzi dall’asse Pearl Jam/Neil Young verso territori a tratti più duri (l’attacco di “Divide” riporta a “Bleach” dei Nirvana), a tratti più vicini agli Afterhours di “Germi”, rischiando però la stonatura nella ruffiana “Gabbiano” (forse l’unico vero punto debole del cd, con quella sua atmosfera timoriana. Piacevole e inaspettata, invece, la presenza di rhodes e harmonium, la cui melodia in “Venere” ricorda addirittura i Grandaddy di “The sophtware slump”.
“Che fare?” si chiede Silone dal booklet… continuare così, senza dubbio, scavando nel profondo delle note, resistendo alle tentazioni modaiole, ma guardandosi bene dal disprezzarle; potrebbe essere questo l’unico modo di ridare vigore e rispetto ad una definizione che rimane imprescindibile e, perché no, di trovare quella ‘cosa’ che, citando Kerouack, il gruppo aveva cominciato a cercare nel lavoro precedente.
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La recensione Sequenze di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2003-03-06 00:00:00
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