Apri gli occhi, di più, per guardare oltre il limite che conosci. Non puoi non farlo, perché se c’è qualcosa che sia davvero capace di trasportare le percezioni sensoriali aldilà del solito è proprio questo intreccio psichedelico, questi sapori dolci e aspri, di tensione interiore inspiegabile che nulla ha a che fare con la ragione. Le dilatazioni sonore di “Ashram”, che parte da un pianoforte per diventare poi lampi all’orizzonte tra i suoi effetti, ti trovano così pronto a sperimentare, a scivolare, senti la batteria colpire nei punti esatti, e tu diventi l’asso di un’avanguardia onirica, di una manciata di eroi disposti a tutto per invadere i sogni, e chi resta steso non è necessariamente sconfitto. Pare di attraversare lotte ataviche mentre l’incedere del brano segna i tuoi passi, ma mentre corri inciampi in “Tarazed”, pieghi le ginocchia, le luci giocano intorno quasi fossero cristalli e proprio nel momento in cui ti convinci di avere l’obiettivo giusto, il basso ti scuote riportandoti nell’incertezza che avevi, le voci lontanissime si fanno strumento in un disco che non contiene parole perché non ne ha bisogno, o non ne vuole, o restano nascoste tra gli alberi e le rocce dei panorami sconfinati che è capace di evocare. “Johin” ha una presa astrale che reinventa le minacce degli space invaders, il viaggio si sposta nel buio di un universo stranamente familiare perché ne sei protagonista, stella o buco nero, e l’ipnotica “Taarna” coi suoi ossessivi vortici ti afferra morbidamente, t’avvolge e ti conduce in ogni angolo tra galassie sconosciute, e tu non muovi un muscolo, non batti ciglio, respiri soltanto, e ne senti il rumore. La musica è un flusso che scorre e tu sei nel pieno dell’onda montante, poi diventi l’onda, e le note fluide passano a muoversi dentro di te entrando a far parte del ciclo vitale, del mutamento, delle cellule nuove, ed “Equinox” è l’istante in cui senti tutto questo, e resti assolutamente immobile finché la sezione ritmica non riparte con “Sator”, lì l’inquietudine ritorna, torna la pioggia e sei di nuovo perso, te lo ricorda il piano e continua a farlo il basso che non vuole vederti tranquillo, “Taotie” è il tuo tentativo di fuga, “Han” l’inevitabile resa, il fare i conti con se stesso, è il gran finale che non può essere mai una vera fine, ma solo il momento di pensare, di fare i conti davvero, per poi nuovamente invadere i sogni.
I Julie’s Haircut possiedono i suoni del racconto, della saga epica come delle inquadrature minimali di una giornata qualunque, e l’hanno sempre avuti ma qui tutto s’amplifica e si sottolinea, e la musica da colonna sonora si fa colonna portante, essenza, ed è come se il dentro e il fuori magicamente coincidessero, le pareti e il nucleo, gli orizzonti e le sinapsi, l’occhio che ruba la luce e ne fa segnali elettrici, l’occhio che è insieme un varco e una protezione: apri gli occhi, lasciati andare, ancora, di più.
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