Nascondersi dietro a un nome d’arte non basta più, quando c’è da dire chiaro e tondo che il mondo è una merda e non può che andare peggio. Margaret Lee mantiene la ragione sociale ma il titolare del progetto, Giacomo Marighelli, diventa nome proprio di un disco che più personalmente generazionale di così non si può.
È una mescolanza continua di riff e invettive. C’è l’estetica sonora dei Marlene Kuntz incanalata nel flusso delle piazze greche. C’è il j’accuse di chi vede le pensioni dimezzate e di chi le pensioni non le vedrà mai. C’è il senso d’impotenza dell’uomo comune, indeciso tra il timore della propria collera e la paura della propria inerzia: ”E mi viene voglia di chiedere scusa basandomi sui concetti jodorowskyani di amore armonia di abbracci e di fiori, ma mi sale il dubbio e mi chiedo come fare con certe persone”, canta Marighelli nella rabbiosa “Vedove nere”.
La tensione attraversa il disco e trova diversi spunti interessanti, come nella fulminea “Non c’è tempo” o nel recitato ossessivo di “Zapoleti”, ruvido rock anni Novanta secondo la lezione dei soliti noti. Margaret Lee è un nichilista che prova a trasformare la propria indignazione in una rappresentazione sonica tagliente e velenosa. “Giacomo Marighelli” è senz’altro un buon album, anche se a volte gli arrangiamenti nascono vecchi (“Baby non preoccuparti, ti proteggo io”), come se si limitassero all’essenziale per non togliere spazio agli strali lanciati dal protagonista.
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