“Se”, come diceva il saggio nella persona di Michael Stipe, “hai creduto che hanno mandato un uomo sulla luna”, allora più precisamente hai creduto che ce ne hanno mandati due, e forse ti sei chiesto com'è essere il secondo uomo sulla luna. Basta dare una scorsa alla biografia di Buzz Aldrin per capire che non è per niente facile. Non è facile essere i secondi, in generale. Questo disco si chiama Aldrin e parla della luna e di un uomo perso nel ritorno sulla terra, e quindi parla di noi, noi persi nel mondo, noi secondi, noi che sbagliamo, inciampiamo, cerchiamo “another sky to watch, another road to walk, another land to leave” sulla “magnificent desolation” che è il nostro pianeta. Aldrin parla di vite e di Vita con una lingua rock alta, classica e ricca, che si affida tanto ai barocchismi di prog e psichedelia quanto alle linee più essenziali di grunge, wave e britpop, linee che riescono a incrociarsi senza cozzare anche nella stessa canzone - per esempio “Alive”, in cui convivono pacificamente Pearl Jam e Radiohead – e che portano in territori malinconici e dark (“April's Song”, “That Magnificent Desolation”, i blues urbani “Crystal” e “Neighbor's Nightmare”) ma anche in posti solari, melodici, pop (“Sunday's Over”, “Lally The Clown”, “The Master”), e anche dove si può ballare una bizzarra e incazzosa disco funky (“Money & Puttane”), con maestria, intensità e una voce notevole. Ottimo lavoro.
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